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Coni di luce (L’ultimo uomo)

Sentivo cadere la pioggia, la sentivo fredda sulla faccia. Allora aprii gli occhi.

Il buio della strada era disseminato di presenze, di coni di luce come umani, più umani di me. Non era pioggia quella che mi bagnava i capelli e scivolava sulle guance, ma gocce pesanti di umidità estiva, sospese, esasperate, che cadendo sussurravano tic tic tic sull’asfalto buio e illuminato. Non le vedevo, ma udivo il sussurro.

«Dormi?» chiese Kroeger al mio fianco. Volevo dormire. Aprire gli occhi domani mattina, immerso nella luce dell’alba, volevo lasciarmi andare, incosciente, ciecamente fiducioso nello scorrere del tempo.

Kroeger si strappava con i denti le pellicine intorno all’ unghia del pollice. Con la mano chiusa a pugno, sembrava un neonato che si succhia il dito.

«Che ore sono?» mi chiese. Non glielo dissi, non aveva importanza. L’ora e il giorno, le nostre coordinate geografiche, il nome di questa strada male illuminata accanto a cui stavamo seduti. Nessuna di queste cose aveva importanza.

Indicai il sacchetto di carta bianco vicino alle scarpe di Kroeger. «Cosa c’è rimasto?»

Kroeger aprì il sacchetto. «Muffin al cioccolato, un donut, e questo…» ficcò dentro la mano e tirò fuori un pacchetto di nylon grande quanto una carta di credito. Conteneva quelli che assomigliavano a quattro francobolli, con i lati scanalati, ma ancora uniti tra di loro. Sventolò il pacchetto e vidi che da un lato era disegnato un clown, o forse era il jolly delle carte da scala.

«Dovremmo fermarci a un Autogrill,» disse. Ci erano rimaste due bottiglie di birra, ma con quel caldo se ne andavano via al ritmo di una l’ora.

«Dovremmo fermarci,» ripetei, come se ci stessimo muovendo.

Kreoger si alzò in piedi, fece due passi lungo il ciglio della strada. Si abbassò la zip dei jeans e pisciò in mezzo all’erba alta.

«Hai paura del buio?» gli chiesi.

«Macché.»

«Neanche io». Comunque non sarei stato del tutto al buio perché quei coni di luce ti pareva di vederli anche attraverso le palpebre abbassate. Chiusi gli occhi per fare una prova ma li riaprii subito per non fargli credere che mi fossi addormentato.

«Sai,» mi disse, quasi come se mi avesse letto nel pensiero, «queste luci prima o poi si spegneranno». Risposi che non poteva saperlo. «Invece sì, e lo sai anche tu.»

«Stai zitto». Ma ormai ciò che è detto è detto. E comunque aveva ragione lui: presto sarebbe stata tutta oscurità.

«Perché non torni a casa? Sai orientarti, no? Magari a casa staresti meglio.»

Scossi la testa in silenzio. Una falena mi si appoggiò sulla camicia. La guardai da vicino, non credo di aver mai guardato da vicino una falena. In quel momento mi sembrò di avere di fronte una forma di vita incredibilmente espressiva. Esprimeva rassegnazione, la sua sagoma diafana posata leggera sulla manica della mia camicia.

«Ne vuoi uno?» chiese Kroeger, tirando fuori dalla busta il pacchetto di francobolli.

«Perché no.»

Ci eravamo conosciuti a un crocevia, come spesso accade. La strada non era questa, ma un’altra. Una strada che porta da Kiev a occidente attraverso il freddo polare. Kroeger guidava un tir per una compagnia di autotrasporti polacca. La gran parte del tempo non sapeva nemmeno quel che portava. Sul cruscotto aveva incollato la fotografia spiegazzata di una donna, Marijana. Ance loro si erano conosciuti a un crocevia perché lei faceva la prostituta, ma era successo anni prima, ormai lei e Kroeger vivevano insieme in una casa di campagna sopra Varsavia. O meglio, vivevano insieme per il poco tempo che a Kroeger era concesso passare lontano dalla strada e dai suoi carichi misteriosi. Intanto la povera Marijana si faceva seviziare dalla vecchia madre di Kroeger che ce l’aveva avuta con lei fin dal primo giorno.

Il giorno in cui Kroeger mi aveva raccolto dalla strada, aveva appena ricevuto al telefonata di Marijana, angosciata perché la vecchia suocera minacciava di denunciarla alla buoncostume. Kroeger era su tutte le furie, fino ad allora non sapeva neanche che in Polonia esistesse ancora la buoncostume.

Era un grosso orso moro, la barba lunga fino al petto, camicia a quadri blu e ocra e uno sguardo da miscredente che lo si riconosceva dall’altra parte del parabrezza. Aveva accostato, mi aveva fatto salire ed era ripartito senza chiedere dove andavo.

Dopo sei giorni di viaggio mi aveva mollato alla periferia nord di Berlino. Sempre senza dure una parola, aveva chiuso la portiera ed era ripartito. Mentre lo guardavo allontanarsi nel tramonto avevo mandato a memoria il numero di telefono stampato sul posteriore del suo cassone.

È curioso come poi in fondo giri tutto intorno a una strada. Mi accorsi che la falena aveva ripreso il volo e non si udiva più il minimo rumore oltre al sussurro dell’umidità che mi aveva inzuppato i vestiti e i capelli e mi scivolava addosso come tante lacrime ma più gravi e universali.

Ero rimasto completamente solo, seduto nell’erba al ciglio della strada. I coni di luce non assomigliavano più a esseri umani ma solo a un fenomeno fisico di cui in un altro momento avrei ricordato il nome e lo avrei ripetuto con piacere, ascoltandolo schioccare nella mia bocca ancora e ancora.

Ero rimasto solo. E allora, mentre una goccia di pioggia mi percorreva la nuca, mi misi a pensare a me stesso. Chi sono io? Ammesso che io voglia dire qualche cosa, allora chi sono io? Un animale, una macchina, Dio, un bambino, un vecchio, un uomo, una donna, un agglutinarsi di particelle, di tempo, di coscienza, qualunque cosa sia. Un girovago, qualsiasi risposta va bene. E qual è poi il significato della parola girovago? E se ero vivo sarei morto? E che cos’è la morte? E che cos’è la Storia? Il pensiero, l’altro, il mondo, l’atteso, l’acqua, lo Shabbat? Che cos’è il Sole e come posso essere certo che sia fuori di me. E se lo è, perché non sorgerà più? E che cos’è il corpo e che cos’è l’anima. Nel mio ultimo respiro chi sarei stato? Se fossimo tutti figli di Dio, che cosa sarebbero i nostri genitori? E i nostri figli?

Guardavo i coni di luce e me li immaginavo angeli, e mi immaginavo in ginocchio a supplicare da loro una risposta.

Ma poi all’improvviso non sapevo che farmene di una risposta. Non importava chi ero perché tra un minuto sarei morto. Oppure tra un’ora o tra vent’anni. Non aveva importanza chi ero, perché presto o tardi qualcuno sarebbe arrivato, magari un angelo uscito fuori da un cono di luce al ciglio della strada. Sarebbe arrivato e mi avrebbe spento, i magari sarei morto da solo, d’inedia, mi si sarebbero scaricate le batterie come a un vecchio van. E chi sarei stato dopo?

Ma Kroeger ritornò. Mi guardò dall’alto, e nei suoi occhi scuri c’era riflessa una macchina di nome Aspian, un mistico fradicio di pioggia, un automa girovago, amichevole, si sarebbe detto, ma un po’ fatto.

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Stefano Zuliani (lui/ləi)

Sono unə studente di Sociologia, unə copywriter freelance e unə attivista eco/queer. Scrivo narrativa breve e articoli di politica, cultura e benessere digitale. Scrivo compulsivamente perché ho una pessima memoria. Non a caso il mio genere è il memoire.

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