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Il mappamondo di Churchill

Lo stesso giorno in cui Melinda scappò di casa portando con sé il mappamondo, ebbe inizio la faida che avrebbe diviso sua madre e sua zia, con i rispettivi mariti, per il resto dei loro giorni.

Quel mattino, il notaio era seduto al tavolo della cucina con di fronte una tazza di caffè bollente; appoggiato al davanzale, lo zio Jona, e accanto la madre di Melinda, scarmigliata come se si fosse appena alzata dal letto.

«E allora?» chiese la donna.

«E allora.» – ripeté il notaio. Dalla finestra entrava un sottile raggio di luce bianca che andava a posarsi sulla tovaglia cerata a disegni geometrici, proprio accanto alla mano che stringeva il plico di documenti. Il notaio fece scivolare la tazza al centro del tavolo e aprì la cartella. In quel momento stava rientrando anche la zia Adelaide, la moglie di Jona, con in braccio una cesta carica di panni umidi. Il notaio si alzò per stringerle la mano ma lei, senza dire nulla, si era già messa a sedere dall’altro lato del tavolo e interrogava le carte a testa in giù per carpire qualcosa.

Lo zio andò a sedersi vicino alla moglie. «Per carità, lo legga!» disse. Il notaio, un giovane inamidato, ubbidì: lesse rapido e senza pause.

La madre di Melinda ascoltava guardandosi le babbucce: via il dente, via il dolore, pensava. Ma si sbagliava: il dolore sarebbe rimasto per moltissimo tempo.

Quando il notaio tacque, la cucina s’immobilizzò, e stette così finché, fuori dalla finestra, un gallo iniziò a cantare.

«Il vecchio ha perso la testa…» mormorò la madre di Melinda.

Lo zio Jona sollevò le larghe spalle. Certo, il testamento parlava chiaro.

“Chissà chi l’ha scritto…” pensava la madre di Melinda, giacché il male aveva obbligato il nonno a letto, immobile, incosciente perlopiù. “Che da solo non riusciva a scrivere neanche un post-it.” Il dubbio le si era insinuato senza incontrare ostacoli, e ormai era poco meno che una certezza: il testamento era opera di qualcun altro.

Lo zio guardava la cognata con il blazer aperto e la camicetta stropicciata. Lei ricambiò lo sguardo con due occhi stretti stretti e colmi di disprezzo, come se al posto di un essere umano, si rivolgesse a una bestia da soma.

«Sei stato tu?» sibilò alla fine. Quello alzò le mani dalla sorpresa. La zia Adelaide, nel frattempo, fissava nel vuoto uno sguardo intenso, come se là avesse un interlocutore segreto, e annuiva di tanto in tanto, per far credere di aver capito la situazione. Si riscosse quando la sorella gridò: «Sei un incivile! Non hai nessuna decenza, non hai». Il notaio le fece gesto di calmarsi e prendere una seggiola, ma lei non gli diede retta. «Uomo schifoso! Hai rubato l’onore di nostro padre insieme con la casa!» – e bestemmiò. A quelle parole Jona scattò in piedi, la fronte corrugata e i pungi chiusi nelle tasche dei pantaloni. In pochi passi le fu vicino e la guardò dall’alto scontrandosi con l’espressione irriverente di lei. A denti stretti, cambiò bruscamente direzione e infilò la porta che conduceva al piano superiore.

«Voglio una spiegazione!» gridò la donna, e scomparve a sua volta nel corridoio. Si udì un tramestio lungo le scale e il notaio, rimasto solo con la zia imbambolata, bevve un goccio di caffè e richiuse il plico.

Erano passate le quattro quando il geometra Luciani oltrepassò il cancello della casa in cui viveva. Non fece in tempo ad attraversare il cortile, che fu raggiunto da un gorgoglio che somigliava a quello del tacchino, ma aveva la voce di sua moglie. «È un assassino e un ladro…» piagnucolava.

Entrando dalla porta principale, trovò le due donne sole in cucina. Sua moglie gloglottava tenendosi le mani in faccia, la zia Adelaide l’ascoltava pazientemente mentre pelava un mucchio di patate sul tavolo da pranzo.

«Oh, chissà cos’ha fatto per convincere il pover’uomo a cambiare il testamento! Non ci posso pensare!»

«Ma,» borbottò la zia, «secondo me esageri…»

Pallida e tutta in disordine, la donna si rivolse al marito: «Ti rendi conto?». Il geometra le accarezzò una guancia. «La casa!» esclamò lei, «quel diavolo di Jona ha trovato il modo di prendersi la casa!»

La sorella le rivolse uno sguardo abbattuto.

«Che cosa faremo? C’è tutta la mia vita in questa casa, tutta la mia roba…»

«Potremmo restare qui in affitto…» suggerì il marito.

«Devo affittare la mia stessa casa?»

«No,» aggiunse la zia Adelaide mettendo da parte una patata, «questo è proprio impossibile. Jona dice che è meglio venderla che tenerla.»

«Cos’hai detto?!»

La zia Adelaide non rispose, e al suo posto entrò lo stesso Jona che da qualche ora si era ritirato in camera da letto per sfuggire agli spasimi della cognata. Aveva il fiato corto a le sopracciglia inarcate.

«Qualcosa non va?» gli domandò la zia Adelaide prima che sua sorella riprendesse a insultarlo.

«La Melinda se n’è andata» disse.

«E dov’è andata?» chiese la zia.

«È uscita dalla finestra col mappamondo.»

Ci fu un momento d’indecisione. Poi il geometra e sua moglie si precipitarono su per le scale fino alla stanza di Melinda. La camera da letto, spaziosa e disordinata, aveva le pareti dipinte di un pallido azzurro, con poster incollati e vestiti sporchi abbandonati sul pavimento.

Una larga finestra affacciava a est, proprio sopra il tetto del garage.

«Ah ecco…» mormorò il geometra.

La donna si gettò tra le braccia del marito; si era fatta di nuovo rossa in volto, respirava rapidamente, e sarebbe caduta in ginocchio se lui non l’avesse sorretta dalle ascelle. «Dove sarà andata la mia bambina?» – e rivolgendosi al marito: «Ma dove sarà andata?»

Checché ne dicesse la madre, comunque, Melinda non era una bambina. Ci assomigliava per via della corporatura minuta, messa in risalto dalla grossa palla che portava sottobraccio. Da sola la palla occupava il marciapiede per intero. Per questo Melinda aveva dapprima pensato di farla rotolare, e solo dopo, preoccupata per le sue condizioni, si era rassegnata a sollevarla, reggendola con le braccia sottili un po’ come poteva. Le sporgeva di fianco come un buffo pancione da clown avvolto in una busta di nylon verde.

Era un vecchio mappamondo di quasi un metro di diametro, retto da un solido telaio e da un braccio legno. La superficie era spessa e ingiallita, e vi si potevano legger sopra nomi di posti che non esistevano più.

In famiglia si diceva che fosse appartenuto a Winston Churchill, ma a Melinda non interessava, perché era appartenuto sicuramente a suo nonno, e questo era molto più importante.

Un giorno aveva chiesto alla madre come avesse fatto ad averlo il nonno, se era stato di Churchill. Allora sospettava che il nonno fosse una specie di spia, le sembrava molto figo, ma non aveva il coraggio di domandarglielo. Qualche anno più tardi, guardando un documentario sulla Seconda guerra mondiale, aveva deciso che suo nonno non ci aveva niente a che fare. Restava perciò aperta una questione: come aveva fatto il mappamondo di Churchill ad arrivare nelle mani del nonno?

Adesso, sotto il sole tiepido del pomeriggio, un’altra domanda la tormentava, mentre camminava lenta sul marciapiede accanto alla strada statale. Perché il nonno aveva lasciato il mappamondo allo zio Jona e non a lei, come le aveva promesso? Non le importava niente della casa, ma il mappamondo di Churchill era suo di diritto, lo era sempre stato, era il nonno che glie lo aveva promesso.

Gli automobilisti guardavano la sua bizzarra sagoma, e lei era indecisa se chiedere un passaggio. Era la prima volta che se ne andava in giro da sola, benché avesse compiuto dodici anni da un mese, e dopo quasi un’ora di camminata iniziavano a farle male le scarpe. A casa di Michele ci era sempre andata in auto, non sapeva esattamente quanto fosse distante.

Un pomeriggio, quando aveva dieci anni, Melinda aveva mostrato a Michele il mappamondo di Churchill. Era appoggiato sopra uno stretto mobile della stanza che tutti chiamavano studio, anche se Melinda faceva i compiti in camera sua. Michele lo aveva toccato con la punta del dito, poi gli aveva dato un piccolo slancio e lo aveva fatto girare finché, davanti ai loro occhi, non era apparsa una forma giallina che si chiamava Empire ottoman. Poi aveva bussato con le nocche sulla superficie del mappamondo e aveva detto: «C’è qualcosa nascosto qui dentro, ci scommetto. E tuo nonno vuole che lo trovi…». Lei era sicura che avesse ragione. Michele è uno di quelli che sanno sempre cosa fare, perciò, non appena lo aveva avuto per sé, Melinda aveva deciso di portare a lui il mappamondo per svelare il segreto.

Dopo un’altra mezzora, però, Melinda cedette alla fatica. Si accucciò sul marciapiede, al confine con un campo non recintato, con il braccio continuava a cingere il mappamondo appoggiato sul prato. Prese il cellulare e telefonò a Michele, raccontò del notaio e della lite, disse che era riuscita ad acciuffare il mappamondo e filare via prima che se ne accorgessero, e che stava venendo a casa sua.

«Sei impazzita?» esclamò Michele, «è troppo lontana! Non arriverai mai». Tacque, e visto che lei non parlava, aggiunse: «Ma come ti è venuto in mente di camminare fin qui, si può sapere?». Si salutarono. Michele non era davvero arrabbiato, e Melinda lo sapeva perché anche suo nonno faceva sempre così: rimproverava tutti quanti, ma in realtà continuava a volergli bene.

Si convinse a sporgere il braccio libero, e rimase ad aspettare finché non fu indolenzito. Il primo a rallentare fu un tizio che viaggiava su una macchina tutta scassata, era calvo e aveva una folta barba che gli copriva il colletto della camicia. Abbassò il finestrino e si tirò su gli occhiali da sole sulla pelata. Aveva un buco enorme all’orecchio. «Hai bisogno di un passaggio?» le chiese, era serio ma sorrideva allo stesso tempo.

Melinda esitò, guardò la busta di nylon verde, gonfia come il ventre di un pitone sazio. Poi fece un passo indietro e, sforzandosi di tirare fuori un bel sorriso, mormorò. «No no, non serve, grazie.»

Percorse un altro centinaio di metri a piedi, col braccio sempre più indolenzito e il mappamondo che nel frattempo si era trasformato in una incudine. Un’altra auto accostò, una station wagon azzurrina. A bordo c’era una donna di mezz’età e, legato al sedile del passeggero su un seggiolino rinforzato, un bambino che poteva avere sì e no un anno. La donna abbassò il finestrino e ripeté la domanda: «Vuoi un passaggio?». Melinda aprì la portiera posteriore e si accomodò sul sedile ringraziando.

La donna non le chiese da dove arrivava né dove stava andando, però le domandò che cosa portava dentro il sacco.

«Questo… è un lampadario,» rispose Melinda, misurando il carico per valutare se fosse credibile, «mia mamma mi ha chiesto di riportarlo a casa dal negozio dove riparano i lampadari.»

La donna sorrise e non aggiunse altro. Doveva aver fiutato l’inganno, perché nella direzione da cui arrivava la ragazza non c’erano nient’altro che campagne.

«In realtà…» mormorò Melinda, «dalla casa di quello che ripara i lampadari…». La donna non chiese altro. Melinda invece le chiese del bambino, come si chiamava, quanti anni aveva, poi della sua vita, se lavorava, se era sposata, se viveva in città eccetera eccetera. Parlò ininterrottamente per tutto il viaggio, perché il sacchetto di nylon faceva uno strano rumore ad ogni curva.

Si fece scaricare vicino a una vigna, e da lì proseguì a piedi lungo la strada che portava al complesso di appartamenti dove abitava Michele. Il cielo si stava gradualmente spegnendo e presto sarebbe scesa la sera. 

Il fratello di Michele era al lavoro, lui era solo nel salotto disordinato, stava guardando un film in bianco e nero e mangiando patatine alla paprika. Si lavò le mani dopo aver richiuso la porta. Melinda si tolse le scarpe, si abbandonò sul divano e iniziarono a scartare l’involucro verde.

«Credi che dovremmo aprirlo?» domandò Melinda.

«Sì.»

«E come facciamo?»

«Adesso ci penso.»

Lo zio Jona, consultando lo schermo del suo smartphone, sentenziò: «Valeva almeno seicento euro».

«Più di mille, secondo me,» intervenne la zia Adelaide.

«Che è un bel problema, visto che adesso sono soldi vostri!» gridò la sorella, stringendosi gli orli del blazer tra i pugni.

Erano tutti e tre in piedi in mezzo al corridoio, due da un lato e una dall’altro, di fronte alla porta spalancata della stanza di Melinda. Il cielo iniziava a imbrunire dietro la finestra ma, siccome nessuno ci aveva fatto caso, le lampade restavano spente e il corridoio era immerso quasi completamente nell’oscurità.

«Non so, secondo me era coperto dall’assicurazione…» disse lo zio Jona, ma contemporaneamente scuoteva la testa.

La madre di Melinda si decise a lasciar perdere, entrò nella camera e andò alla finestra. L’aprì e si sporse di sotto. Laggiù al pianterreno, accanto al garage, il geometra Luciani stava attraversando il giardino a lunghe falcate, la testa rivolta in alto.

«Certo,» urlò da sotto, non appena la vide alla finestra, «avrebbe potuto farsi male…»

«E non ci avrebbe chiamati?» rispose la donna, la voce arrochita dal tanto strepitare.

«Non so. L’ha fatto?»

Scosse le spalle. «Non so.»

Rimasero in silenzio per diversi minuti, lui che dal basso esaminava la struttura del garage, e lei che lo guardava senza espressione.

«Sai cosa…» disse alla fine il geometra, «adesso prendo la macchina e vado a cercarla. Che ne dici?»

Tanto disse e tanto fece: ricevuto benestare della moglie, l’auto uscì dal garage, percorse il vialetto e sparì dopo la svolta che s’immetteva nella strada statale. Poi, siccome nessuno aveva pensato a preparare la cena, scese in cucina e si mise lei stessa ai fornelli.

La zia Adelaide, tornando di sotto, la trovò tutta indaffarata, e sopra il tavolo, mezzo mucchio di patate avevano ancora su la buccia. Ogni tanto abbandonava i fornelli e sospirava rivolta alla finestra.

«Magari torneranno a casa,» mormorò la zia, ma l’altra si limitò a sospirare di nuovo e a piagnucolare: «La mia bambina…». Allora la zia Adelaide sciacquò il pelapatate e accese la televisione.

Il mappamondo era vuoto. Michele aveva usato un tagliacarte per fare un’incisione sulla superficie, abbastanza larga da poterci guardare dentro. Solo che dentro non c’era niente.

«Magari non riusciamo a vederlo perché è incollato proprio accanto al buco,» disse.

«Ma hai bussato dappertutto,» si lamentò Melinda, «qui non c’è niente!»

«Magari ho bussato male, o magari è qualcosa di sottile che non si riesce a sentire…»

«Dici che lo dobbiamo aprire del tutto?»

«Dipende se vuoi scoprire il segreto di tuo nonno.»

«Va bene.»

Mentre Michele, seduto a gambe incrociate sul tappeto, recuperava il tagliacarte e iniziava a capovolgere l’ingombrante palla per decidere quale fosse il punto migliore per incidere di nuovo, Melinda si era sdraiata sul divano e guardava una macchia di umidità sul soffitto che aveva più o meno la stessa forma dell’Impero ottomano.

«Secondo te si è dimenticato?» Michele non rispose. «Mi aveva detto che quello era mio, però poi si è dimenticato di dirlo a tutti gli altri.»

«Che t’importa?» sospirò Michele, infilando l’occhio nella seconda fenditura, «tanto mi sa che qui dentro non c’è niente.»

«Va be’, però me lo aveva promesso».

Michele la guardò e sorrise leggermente. «Non fare la bambina,» le disse, ma si vedeva che era dispiaciuto anche a lui. Abbandonò il mappamondo con un’alzata di spalle e andò in cucina a prendere un pacchetto di patatine per Melinda.

«Posso restare a dormire?»

«Tua mamma non sa che sei qui?»

Scosse la testa, e per un attimo perse di vista la macchia a forma di Impero ottomano.

«Sarà super incazzata. Fra poco torna mio fratello, magari ti può accompagnare a casa…»

«D’accordo,» mormorò lei. Fece scoppiare il lato superiore del pacchetto di patatine alla paprika che neanche le piacevano. «Però Michi,» aggiunse, e indicò quel che restava del mappamondo di Churchill, «tieni tu questa schifezza.»

Il fratello di Michele la lasciò davanti al cancello. C’era un gran silenzio e in garage mancava l’auto di suo padre. Melinda si sedette sul gradino del cortile, nascosta dal muretto di cemento. È lì che il geometra Luciani la trovò, imboccando il vialetto in automobile.

Entrarono in cucina, la zia Adelaide stava lavando i piatti e quando sentì la porta richiudersi girò la testa. «Hai cenato?» chiese. Melinda rispose di no. Allora arrivò anche sua madre che, allargando le braccia per lo stupore, urtò il braccio dello zio Jona.

«Hai visto che l’ho trovata?» disse il geometra Luciani.

«E dove sarebbe il mappamondo?» chiese lo zio Jona.

«Dovreste andarvene al diavolo, tu e il tuo mappamondo!» intervenne la madre di Melinda, e corse ad abbracciarla.

«Non ti permettere di parlarmi in questo modo!» rispose lui.

«Per piacere…» mormorò la zia, guardando negli occhi la sorella, e sembrava che la stesse supplicando. Venne riscaldato l’arrosto per Melinda e tutti si sedettero a tavola, eccetto il geometra Luciani, che rimase in piedi sulla porta. Lo zio Jona aveva cominciato a rimproverare Melinda per il mappamondo, sua madre aveva ricominciato a dargli del ladro e dell’egoista. Melinda taceva. Le patatine alla paprika non le avrebbero fatto più così schifo, però fuori dalla finestra era completamente buio, e quella era la sua famiglia.

Finita la cena, suo padre l’accompagnò di sopra.

«Me lo aveva promesso,» disse Melinda, una volta raggiunta la sua camera da letto. Lui entrò e si mise a sedere di fronte alla scrivania ingombra dei libri di scuola. Melinda, seduta sul letto con le ginocchia alzate fino al mento, non lo guardava neanche. «Ma secondo te se l’è dimenticato?»

«Il nonno era vecchio, tesoro. Si dimenticava di tutto.»

«Ma proprio di tutto?»

«Sì.»

Melinda non rispose. Si sentivano di nuovo le grida di sua madre al pianterreno.

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Quando il nonno muore, nella famiglia di Melinda tutti iniziano a litigare. Per di più, Melinda è l’unica a sapere che il vecchio mappamondo, che si dice fosse appartenuto a Winston Churchill, contiene un segreto, così decide di rubarlo.

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Stefano Zuliani (lui/ləi)

Sono uno studente di Sociologia, un copywriter freelance e un attivista eco/queer. Scrivo narrativa breve e articoli di politica, cultura e benessere digitale. Scrivo compulsivamente perché ho una pessima memoria. Non a caso il mio genere è il memoire.

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