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Il tappo della lavabicchieri

Uno: accendere le lampade che pendono da sopra il bancone del bar. Due: accendere le luci di servizio, le lucine arcobaleno sulle mensole e i neon che illuminano da sotto il piano di finta pietra del bancone. Tre: vuotare i bidoni del vetro, della carta straccia e della plastica usa e getta. Quattro: controllare che il frigo a colonna sia rifornito; va caricato di bibite in lattina, birra e bottiglie di prosecco, che servirle calde è una vergogna. Poi: inserire il tappo nel fondo della lavabicchieri e accenderla. Mentre si scalda, aprire la cassa: contare il fondo cassa dell’ultima volta, accendere il telefono di servizio e il pos; la cassa va incastrata sotto la spillatrice della birra, la cassetta delle monete sopra. Sette: pulire e disinfettare il piano di lavoro di alluminio e poi il bancone. Otto: aprire il vano degli alcolici, controllare che non sia finito niente, e poi disporre la linea sul piano di lavoro – da sinistra destra: acqua frizzante, topping, zuccheri e sciroppi, triple sec, tequila, gin, vodka, rum chiaro, rum scuro, Aperol e Campari, Martini Dry, vermut rosso, whisky, amari, grappa, sambuca e vini rossi a temperatura ambiente. In un bicchiere d’acqua mettere cucchiai, filtri, pinze e pestello. Ultimo: prendere il ghiaccio dal freezer a pozzo e metterlo in una ciotola di metallo.

Tempo totale: 25 minuti. Ma io ce ne metto 10.

Di solito chi arriva non sa che siamo volontariɜ. Alcunɜ si aspettano un servizio da cinque stelle su Trip Advisor. Nel tempo, qualcunɜ è perfino venutɜ a chiederci un lavoro. Sono persone LGBT che stanno a Torino da poco, e starebbero bene a lavorare in un posto come questo. Ma noi non siamo un locale, ho provato a dirglielo ogni volta, noi siamo un circolo. Ho sentito di qualche circolo che a fine serata passava 50 euro sotto banco allɜ baristɜ. Vorrei poter dire che queste forme di evasione sono la norma.

Quando ho cominciato non sapevo distinguere un gin da un rum, non esagero. Mi trovavo di nuovo solə e sfaccendatə in una città sconosciuta e, proprio come la prima volta, avevo scelto la via delle associazioni. Prima avevo iniziato a frequentare le attività della domenica, un gruppo accogliente, in cui qualche persona trans già c’era. Dopo il lungo lockdown avevo cominciato ad andare anche alle serate, che erano sempre abbastanza intime da permettere a chiunque di parlare con chiunque. Io però spesso mi sentivo in soggezione: conoscevo due o tre persone della domenica, ma a tutte le altre mi sembrava di fare una pessima impressione. Durante le serate parlavo poco, e mi ritrovavo il più delle volte, volente o nolente, a starmene per i fatti miei.

Sono convintə che buona parte dell’attivismo si regga su questo: il desiderio di rendersi utili, perfino indispensabili, per garantirsi l’accesso a degli spazi sociali. Col bar mi ero trovatə qualcosa di serio da fare, un pretesto per essere presente lì, incontestabilmente utile.

Una cosa però non la sapevo. Torino non è Milano: ci ha provato, nei primi anni Duemila, ad attirare investimenti a pioggia e privatizzare tutto il possibile, ma ha fallito. O meglio, ci è riuscita, alla fine, ma la strada è stata più lunga. Servivano altre forze, attori intermedi: all’inizio la si è chiamata società civile, o un rassicurante non profit, poi un più modesto terzo settore. Fatto sta che tutti i buchi lasciati dallo Stato, dal welfare e dalla Fiat li abbiamo riempiti noi, le associazioni. Spazi artistici, spazi culturali, spazi di aggregazione, doposcuola, palestre, corsi di lingua, inserimento lavorativo, prevenzione e assistenza sanitaria, accesso alla casa, supporto a ogni forma di minoranze che sia mai stata nominata in un bando dell’Unione Europea (incluse ovviamente le persone LGBT). Qui ci siamo noi: perché a un certo punto li hanno considerati lavori di pubblica utilità, ma non abbastanza da permetterci di retribuirli.

In compenso, in quella postura di funzione al di là del bancone, tendevo a piacere allɜ altrɜ. Col tempo imparavo a concedermi un po’ di più. Ero sempre servizievole, prontə a risolvere un problema, che fosse un cambio di banconote o un bidone da vuotare. Conoscevo un po’ tuttɜ lɜ altrɜ volontariɜ, e a un certo punto avevano cominciato a fidarsi di me.

C’era un responsabile, in quel periodo, che era già quasi pronto a lasciare il posto. Mi chiese di incontrarci. Me la ricordo come una sera fredda e rumorosa, eravamo seduti all’aperto, ai tavolini di un bar del quartiere; ci eravamo detti che ci andava di bere uno spritz fatto da qualcun altrə, una volta tanto. Mi disse che si sarebbe trasferito all’estero (cosa che sapevo già), e che cercava una persona che prendesse il ruolo di coordinamento del bar. Mi chiese se potevo essere io.

Dal profondo pensavo no, ma l’unica risposta che potevi dire a voce alta era sì, al limite sì ma…

Tolte le case in cui ho abitato e le scuole elementari a tempo pieno, il bar del circolo è verosimilmente il posto in cui ho passato più ore nella mia vita. È aperto circa tre sere a settimana, e ci diamo i turni tra cinque, massimo otto persone volontarie, ma da quando ho iniziato non mi ricordo di essere mai statə una settimana intera lontano dal bancone o dalla fornitura degli alcolici.

Ma allora perché lo fai?

Perché serve, perché qualcuno lo deve pur fare. Per partecipare alle serate e conoscere la gente. Qualunque risposta non esaurisce la domanda. C’è anche un gradino, non solo metaforico, su cui stai in piedi quando sei dietro il bancone del bar. Da lì sei in controllo della situazione, decidi tu quando accogliere le interazioni e quando non farlo; puoi fermarti a chiacchierare oppure mostrarti impegnatə e interrompere una conversazione senza bisogno una scusa. È un po’ il tuo ruolo, la tua recita, che inizia quando accendi le lampade colorate che pendono sopra il bancone, e finisce quando si spengono come i fari sopra il proscenio.

Ci sono delle cose, come il lungo tappo cilindrico della lavabicchieri, che hanno la forma di una sicurezza, e quasi mi sorprende di non poter risolvere le cose così. Quando la Dora esonda e il quartiere di Aurora si allaga che sembra Venezia, ma senza niente di romantico, al buio e con la pioggia che scende fitta, mi immagino da solə sul lungo fiume, umile eroə con in mano il tappo della lavabicchieri. Ci sarà un posto dove infilarlo per risolvere tutto, no?

A volte invece mi trovo a pensarla diversa. Durante le serate, quando chiacchiero con la gente – gente bellissima e famigliare con cui si scherza tutto il tempo, in un discorso sempre aperto che si arricchisce di settimana in settimana – e perfino con lɜ estraneɜ, all’improvviso mi guardo dall’esterno. Ciò che è estorto, penso, resterà estorto per sempre. Le parole di circostanza, certe amicizie flessibilissime, quella fiducia che nasceva dalla necessità. Qualcunə ha detto che il contrario di fiducia non è sospetto, ma sicurezza.

A forzare la mano succede questo: rimani col dubbio di essere dalla parte del torto, ma anche di essere ancora quel personaggio bizzarro e silenzioso, con in mano il tappo della lavabicchieri, mentre cerca intorno a sé un problema da risolvere. E infine ripone il tappo sulla mensola, prima di spegnere le luci che pendono sopra il bancone di finta pietra, che in realtà è cemento ricoperto da uno strato di linoleum che sta iniziando a staccarsi.

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Stefano Zuliani (lui/ləi)

Sono unə studente di Sociologia, unə copywriter freelance e unə attivista eco/queer. Scrivo narrativa breve e articoli di politica, cultura e benessere digitale. Scrivo compulsivamente perché ho una pessima memoria. Non a caso il mio genere è il memoire.

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