Due premesse di metodo e una di merito.
L’essay è un genere marginale e quasi del tutto sconosciuto nell’orizzonte della scrittura in italiano. Per capire cos’è e che forma ha avuto prima d’ora, ho trovato essenziale guardare ad autori e soprattutto autrici del peso di Virginia Woolf, Francis Scott Fitzgerald, Joan Didion, bell hooks e altr3.
Paradossalmente, la svolta verso il racconto di realtà a cui si è assistito negli ultimi anni non ha portato con sé alcuna rivalutazione dell’essay, soprattutto in forma breve. Ci sono alcuni testi, usciti su rivista o in newsletter, che si avvicinano molto a quello che intendo per essay (penso per esempio a Medusa di Not, curata da De Giuli e Porcelluzzi). Ho scelto di non guardare, se non tangenzialmente, a questi testi perché temo che il genere dell’essay possa troppo facilmente collassare su un formalismo tutto rivolto verso la struttura e l’efficacia comunicativa. Senza nulla togliere a questi testi, che sono letture ricchissime di spunti sia formali che di contenuto, la mia idea è di approcciarmi all’essay con un occhio alla sostenibilità del gesto.
Se la scrittura fa parte della vita quotidiana, una scrittura che mira sempre a costruire castelli finisce per esaurire il terreno a disposizione, insieme alle energie. Perlomeno vale per me, che non pratico la scrittura narrativa di professione e non ho una vita e un campo di esperienze così interessante da volerci dedicare straordinarie costruzioni (di cui in comunque non sarei capace). Scrivo per cercare e per fare domande, per fermare delle cose, e qualche volta anche per comunicare. Per andare avanti mi serve un foglio bianco, un po’ meno di performatività e un po’ più di leggerezza. Spero di non scivolare troppo nel formalismo, ma il rischio c’è sempre.
* * *
Veniamo alla questione degli occhiali.
Non credo che basti una storia a raccontare la realtà. Per dirla radicalmente, non credo che qualsiasi cosa possa mai bastare a raccontare la realtà, se non la realtà stessa in scala uno a uno. Quello che vorrei fare qui è diverso: raccontare alcune cose che fanno parte della realtà, inserendole nel contesto che più verosimilmente può produrle, e cioè il contesto che in questa realtà le ha prodotte. Non mi interessa la realtà in sé, né tanto meno la verità, ma è per amore di verosimiglianza che ho scelto di raccontare cose successe veramente, per poterle restituire con la maggior precisione possibile, tutta quella che io so metterci. La mia pratica è forse in qualche modo simile all’autoetnografia come metodo di ricerca sociale.
E allora la specifica è d’obbligo. Per raccontarla vera è necessario avere un paio di occhiali abbastanza pesanti e dalle lenti abbastanza deformate da non permetterti mai, neanche per un momento, di dimenticare che li hai sul naso. Quegli occhiali sono io, il mezzo per vedere e il filtro di tutto. Mi spiace, non credo che si possa farne a meno.
* * *
Nel merito, ho da dire un’ultima cosa.
In questi pezzi c’è politica e c’è sesso: discorsi sulla politica e sul sesso, corpi politici e corpi sessuali. C’è l’anarchismo; c’è gente trans* e queer; c’è Torino; ci sono sentimenti anche sgradevoli; c’è da non dare niente per scontato; c’è una fastidiosa tendenza a relativizzare le cose e attribuire a ognunə le proprie ragioni (perfino ai fascisti); c’è un materialismo vitalista in cui le cose inanimate agiscono proprio come me e te; ci sono un sacco di schwa, x, u eccetera.
Spero con tuttə me stessə che leggerai questi pezzi con la più assoluta libertà. Come per il sesso e per la politica, se non puoi rifiutarti non puoi neanche scegliere di partecipare.