Qualche settimana fa, stavamo lavorando a una presentazione universitaria per analizzare i risultati di una ricerca britannica sulla socializzazione di genere delle giovani persone trans, non-binary e gender questioning a scuola. Al di là del merito della ricerca, la questione verteva su come organizzare la presentazione di gruppo. Si è deciso di utilizzare un modello di Canva per poterci lavorare su tutt3 insieme.
Solo dopo qualche giorno mi sono resə conto che il modello che avevamo scelto appariva insolito per una presentazione universitaria. Il testo è estremamente piccolo rispetto alla dimensione delle slide, è tutto tendenzialmente bicromatico, e ha disegni e doodle come elementi riempitivi che rimandano a qualcosa di stereotipicamente scolastico ed elementare, quasi la parodia di un segno infantile. Non si può dire che fosse brutta, anzi forse era troppo bella per non sembrare in qualche modo impersonale, come certe foto stock che scarichi da Unsplash.
È un problema secondario rispetto alla natura dei rapporti di lavoro e molto altro, ma non per questo irrilevante. Riguarda la scelta dello strumento (di cui parleremo a breve nel giardino punk), ma anche una certa idea di bellezza che, come ci insegnano le massime, sta negli occhi di chi guarda e di chi sceglie il modello Canva. Il risultato è che tra un carosello Instagram e una presentazione universitaria c’è una sostanziale uniformità estetica, e non ci sarebbe davvero alcuna differenza tra le due classi di modelli, se non per il formato delle slide che comunque restano pensate per una fruizione collettiva.
È uno di quei casi in cui l’idea di bellezza e armonia che abbiamo sviluppato su Instagram esce da Instagram e agisce sul mondo. Un altro caso analogo che mi viene in mente è quello di una pasticceria o sala da tè che ha aperto in una via secondaria del centro di Torino. È molto difficile spiegare il significato della parola instagrammabile a chi non la conosce, ma sono convintə che l’unico motivo per cui quell’attività lì è riuscita a rimanere aperta è proprio il fatto di essere instagrammabile. Lo spazio, la forma e il colore dei tavolini, delle tazze e perfino l’aspetto dei dolci che serviva.
Per la comunicazione è un vantaggio e al tempo stesso un limite. Da un lato è una strada più facile, e soprattutto più veloce, per ottenere risultati discreti quando non hai nulla da dire né il tempo per pensarci su. Ma dall’altro lato c’è in vincolo, questo continuo doversi adeguare a forme estetiche preconfezionate che, quando c’è, non rispecchiano il messaggio che cerchi di trasmettere.
In un certo modo però è anche un problema politico. Lungi da me pensare che bellezza e/o bruttezza siano uno dei grandi problemi della nostra società, resta il fatto che hanno degli impatti reali materiali sul mondo. Prendi Starbucks. Vive di immagine, non ha mai neanche provato a nasconderlo, io ne sono venutə a conoscenza attraverso i social dell’immagine, che hanno sempre avuto un ruolo, al punto che la stessa identità visiva aziendale è oggi quasi immutabile, istituzionalizzata e saldamente ancorata a tutte le rappresentazioni mediali che ha nutrito, un corpus di paesaggi di vita che sono il vero customer benefit di Starbucks.
Qual è il contro? Innanzitutto il modello relazionale e politico che normalizza: l’acquistare al prezzo di €5,60 la legittimità di stare nello spazio pubblico come individuo che si fa gli affari suoi col MacBook. Ovvero il modo in cui, più in generale, ha contribuito a stabilire una modalità adeguata (cioè economica) di stare nello spazio pubblico, e allo stesso tempo etichettare tutte le altre modalità come inadeguate, indesiderate, indecorose. E ovviamente c’è anche il risvolto materiale produttivo, o ecologico che dir si voglia, perché per accedere a quel tipo di estetica si richiede tutta una serie di oggetti la cui produzione non è un dato di natura. A partire dal nostro MacBook, il potos domestico, oggetti di casa vari ed eventuali, meglio se minimali e in stile Ikea, ma anche il classico bicchiere di carta con sirena e frappuccino. Sono tutti consumi che mantengono catene del valore non etiche e non sostenibili, consumi a cui non possiamo rinunciare se vogliamo rispondere a determinati criteri di accettabilità e norma sociale.
Ma anche per artist3 e designer il punto è delicato. Quei modelli estetici che si rendono pervasivi sono il frutto del lavoro di qualcun3, di un lavoro che, ben lungi dall’essere creativo, è imbrigliato all’interno di modelli e significanti precostituiti. Il lavoro non è più quello di comprendere il soggetto e raccontarlo visivamente, ma sempre più spesso è: fammi qualcosa sullo stile di [inserire una pagina con più di 40k follower]. Quello che finiamo per perdere è il senso del segno, la concezione per cui un determinato segno o elemento grafico significa qualcosa, perché così si rende leggibile; che è una scelta, non necessariamente razionale, ma in ogni caso legata al contenuto emozionale o relazionale di ciò di cui stiamo parlando (la coloritura emotiva si dice).
Oltre al fatto stesso che significhi qualcosa, perdiamo anche la capacità di comprendere che cosa significa, che informazione veicola il linguaggio, cioè come si posiziona quello specifico segno all’interno di un contesto culturale condiviso, a cui noi tutt3 partecipiamo tanto come fruitor3 quanto come produttor3 e riproduttor3. Il nostro lavoro diventa meccanica pratica emulativa e alienata, sostanzialmente sostituibile (anche eventualmente con intelligenza digitale generativa); un sovrappiù di capacità che, come ogni attitudine sociale, si produce con l’uso e con il disuso va persa.
Tornando alla nostra presentazione in aula, questi doodle e piccoli soggetti stilizzati fanno riferimento a quello che io, lavorando entro una certa sfera socioculturale, leggo come un linguaggio abbastanza egemonico, tipico del marketing sociale/informale di stampo anglofono tendenzialmente progressista e femminile. Ma facendo un passo fuori, immaginandomi “solo” fruitorə, vedo un tratto molto infantilizzante, che potrebbe essere inadatto tanto al contesto della nostra presentazione, quanto e soprattutto al suo contenuto (si parla sì di persone in età scolare, ma lo si fa attribuendo piena legittimità alla loro descrizione di sé e del loro mondo, e addirittura si arriva a farci sopra una ricerca scientifica). Insomma, con la sola scelta di un modello Canva si rischia di comunicare qualcosa che non avevamo intenzione di comunicare. E questo è un problema politico, sia per quanto concerne il destino delle giovani persone gender variant, sia per quanto concerne la nostra capacità di leggere e agire attivamente sul mondo che ci circonda, e insomma di trasformarlo.
La mia utopia in questo senso è di arrivare a vivere i social media come spazi autoreferenziali anche dal punto di vista estetico, qualcosa di peculiare e coerente al suo interno, uniforme sì, ma immediatamente riconoscibile come “l’estetica da social”. Mi immagino che, per esempio, vedi un’immagine fuori contesto, in giro nel mondo là fuori, e sei in grado di dire: questa è un’immagine che viene da Instagram, lo stile è quello, la tipologia è quella, ha proprio quel non-so-che… Non si tratta di padroneggiare la teoria estetica né di impararlo a scuola, non è trovare le parole per descriverlo, ma riuscire a vederlo, e riuscirci tutt3.