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O: una storia ombelicale

In realtà non è una O perfetta. È un po’ allungata, come uno zero. Si solleva e si abbassa dal centro della pancia, una posizione a metà tra il bacino e la gabbia toracica, in mezzo alla pelle nuda, con solo un po’ di peluria che sale su dalla soffice nuvola scura del pube, e si assottiglia mentre abbraccia l’ombelico fino quasi a entrarci dentro.

È un anello che racchiude un buco non molto profondo, ma profondo quanto basta a catturare e intrappolare qualche pallino di cotone e di flanella che si stacca da una felpa attratto da un principio di gravità solo suo (ma tutto sommato comprensibile). Un buchetto che ha come unico scopo di alzarsi e abbassarsi adagio. Alzarsi e abbassarsi.

E però, se sai ascoltarlo, racconta delle storie. Un’orma materiale lasciata dal passaggio di un Evento importante, cioè naturalmente il fatto di essere venuta al mondo, che lo richiama e fa pensare a quel momento lontano e misterioso e a tutto quello che di bello e di brutto ha portato con sé. E poi testimonia di un lungo lunghissimo periodo di simbiosi, prima e dopo l’Evento, di un bisogno parassita di restare legatɜ, fragilissimɜ, a un altro essere umano nella buona e nella cattiva fede. E ancora ti racconta l’altra storia, il fantasma, di quello che succede quando il canale si interrompe prima del tempo, come un picciolo che marcisce e marcendo si assottiglia e si spezza abbandonando alla gravità un frutto non ancora maturo. Certe persone portano addosso la cicatrice circolare di un taglio antico, una separazione netta, prima che il legame permeasse il corpo per cristallizzarsi in una quasi certezza. Mi hanno insegnato che quel taglio, insieme al taglio di sé stessɜ, è l’unico che non guarisce mai. Ma ora non ne sono più così sicurə.

Osservando la O che si alza e si abbassa mi accorgo di una piega di pelle tesa sotto il forellino. Sdraiatə a letto accanto a lei, avvolto dal profumo dei suoi capelli, mi lascio ipnotizzare da quel movimento dolce e dalla piega che da dove la guardo sembra una palpebra di Polifemo o una serranda abbassata per metà.

Una volta magari il suo ombelico era proprio come un oblò. Se la conoscessi da più tempo lo saprei. Magari è stata lei, che ha stretto quel lembo di pelle tra il pollice e l’indice così a lungo e con un impegno tale da cambiare definitivamente la sua forma. È facile immaginarmelo: un gesto simile, ma più intenzionale, a quello che le ho visto fare tante volte d’estate, con la punta del dito distrattamente infilata nella O, mentre completamente assorta legge a petto nudo un libro queer, mentre io pesto sulla tastiera e quando la guardo perdo il ritmo.

«Posso toccarlo anch’io?» le chiedo.

Tira fuori la faccia da Preciado. «Cosa?»

«L’ombelico. Posso?»

Si guarda da fuori e si accorge della falange infilata nel forellino. Ci pensa e poi conclude che sì, è una bella sensazione, e allora mi lascia percorrere con l’indice il perimetro della O, e sfiorare l’anello prima in senso orario, poi antiorario, poi di nuovo orario; il mio polpastrello che scivola deciso ma anche un po’ inquieto, come un atleta dei duecento metri piani che si allena per la maratona e a ogni passo reprime il desiderio di fare lo scatto.

«Come fa a piacerti?», protesta, «Ha i nei…»

La interrogo come se avesse parlato in una lingua sconosciuta. «Quali nei scusa?»

Avvicino la faccia alla sua pancia che profuma di un profumo indescrivibile ma ormai familiare. Sulla pelle chiara ci sono due nei. Uno più piccino, a destra poco sotto la O, seminascosto nella peluria. L’altro più grosso e scuro, sempre a destra ma più in alto. «Hai ragione,» non li avevo mai notati, «hai due nei…»

«Appunto.»

Le sfioro di nuovo l’ombelico, ma lei mi richiama. «Non guardarlo!»

«Okay scusa!» Mi metto una mano sugli occhi, allungo l’altra come uno zombi e a tentoni arrivo a pizzicarle la pancia. Lei salta; apro gli occhi e con tutto il corpo si arrotola tu sé stessa e intorno alla mia mano. Allora le sfioro i peli delle ascelle e le punzecchio il collo e i capezzoli e le solletico tutte le parti, e sembrerebbe un po’ puerile ma insomma finiamo a scopare. (In fondo tutti gli anelli si assomigliano un po’).

Fuori ha cominciato a piovere. Il tempo passa sul quadrante dell’orologio ma non passa per me. Sono assente dalla conta – non contate su di me! –, dove mi trovo le ore e i minuti non ci sono. Al loro posto picchietta indefinita e irregolare la pioggia fuori dalla finestra aperta. L’aria è umidissima e anche la sua pelle. Profuma di deodorante.

Gode per qualcosa che non mi so spiegare. Memoria muscolare sarà, ma mi sembra che le mie mani la conoscano meglio di me. Mi perdo nel ritmo del respiro come a lezione di yoga. Quando torno a sincronizzarmi mi viene voglia di ridere.

«Ti sei sborrata nell’ombelico.»

Sorride bellissima, fa la faccia del mai una gioia. «Vado a lavarmi», dice, ma la sto trattenendo cingendo le gambe intorno alle sue.

Intingo i polpastrelli nel suo sperma e lo stendo come vernice acrilica a coprire i due nei. Lei mi guarda stuccare, imbianchinə all’improvviso, senza dire niente.

«Mi piacerebbe scrivere una storia sul tuo ombelico.»

«Con la sborra o senza?»

«Non so. Forse con,» sbuffo piano. «Una storia d’amore…»

Si divincola e va in bagno. Scorre l’acqua. «Non so, mi sembra un po’ manieristico…» dice da dietro la porta socchiusa. Torna pulita, la pancia di nuovo asciutta e i due nei al loro posto.

Mi si sdraia accanto, con i capelli sciolti che rivestono tutto il cuscino. La pelle sudata che lentamente si raffredda e l’ombelico che va su e giù; poi su e poi giù; e poi su e poi giù; e poi su… aspetta, e poi giù, e il respiro rallenta nel rumore della pioggia.

Davanti ai miei occhi quel centro: la O scoperta e biasimata, prima scandalosa per gli altri e poi pudica per sé; la O segreta che non ha mai chiesto di essere guardata, né tanto meno di essere raccontata. E mi perdonerà se ho scritto questa storia, ma il fatto è che a volte amarsi è un po’ scandaloso. Amarci è scandaloso quando dovremmo accettare la frattura, la separazione antica e definitiva tra noi e lɜ altrɜ. Di fronte al taglio e alla separazione di te stessɜ in due parti (e solo due!), quando scegli ostinatamente di ricomporre tutto, rimescolare tutto – amarti è scandaloso.

Se ho capito qualcosa di me, è che non è il desiderio ma l’amore a far muovere da sole le mie mani, che è il mezzo e il fine di tutto quello che verrà in futuro, ma che già oggi si nasconde nei riccioli del tempo sprecato.

Sotto il mio solo sguardo, l’anello della O si alza e si abbassa regolare, in silenzio.

In realtà non è una O perfetta. È un po’ allungata, come uno zero.

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Stefano Zuliani (lui/ləi)

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