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La vita è un ballo in maschera: l’interazionismo simbolico

🕒 8 minuti di lettura

C’è una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro. E quando stai solo, resti nessuno.

Luigi Pirandello

Ci sono persone che vivono con fastidio l’idea di portare una maschera. Mi è capitato di parlarne al più tardi qualche settimana fa. Perché ci comportiamo in modo diverso di fronte a persone diverse? Non dovremmo farlo, mi dicevano.

La mia ricerca su questo argomento parte dalla comunicazione. Nella mia tesi su L’invenzione di Ronnie Pinn mi sono trovatə a dover affrontare il tema di come attraverso la comunicazione si produce l’identità dell3 partecipanti, oltre al significato del messaggio.

Quella che pirandellianamente chiamiamo “maschera” è, in termini più specifici, una tecnologia del Sè che ci consente di fare almeno due cose fondamentali e a mio avviso meravigliose: 1) cooperare, e 2) sperimentare la molteplicità di ciò che possiamo essere.

L’idea piuttosto radicale della sociologia è che la soggettività non sia nient’altro che la somma di queste relazioni che si rispecchiano su di noi. In questo post ti racconto come è stata teorizzata questa idea da parte di una corrente sociologica, l’interazionismo simbolico, e gli sviluppi che ha raggiunto con uno dei padri moderni della sociologia, Erving Goffman.

Prospettive relazionali

L’idea di un Sé influenzato dalla relazione con l3 altr3 nasce nei primi anni del Novecento in concomitanza con la teoria interazionista di George Herbert Mead e Charles Horton Cooley.

La socializzazione per Mead non è un processo limitato alla fase infantile. Al contrario, il Sé compie continue trasformazioni mentre interagisce con l3 altr3 attraverso un processo di auto percezione riflessiva, e per questo è in continua transizione. Il metodo adottato dall’interazionismo simbolico nello studio del comportamento, non si concentra quindi sulle azioni o sulla consapevolezza individuali, né su una nozione astratta di società, ma sulle esperienze condivise degli individui, sulle loro interazioni[1].

Nel concreto, l’interazionismo simbolico ha contribuito a creare una teoria del Sé e a descrivere un particolare processo, che Becker ha definito detto etichettamento. Questo consiste nella costante rinegoziazione del Sé da parte di un individuo, in funzione della sua percezione di quello che gli altri pensano di lui, “interiorizzando i simboli e le espressioni del gruppo e arrivando a vedere se stesso, a tutti gli effetti, come ritiene che gli altri lo vedano”[1]. È utile tenere a mente che tra il soggetto e gli “altri” a cui facciamo riferimento può esserci una disparità di potere reciproco e legittimità anche notevole, e pertanto questa negoziazione sulle caratteristiche del Sé non è sempre semplice e indolore. È il caso per esempio del rapporto con le istituzioni, intese in generale come “norme di comportamento dotate di specifica cogenza normativa”[2]. Esse esercitano nei confronti del soggetto il “terribile potere di identificare”[3], e cioè di apporre forme di etichettamento dalle quali è molto difficile liberarsi proprio in virtù del prestigio di cui le istituzioni godono e dell’enorme potere cognitivo di cui sono dotate le loro categorizzazioni (basti pensare alle forme di devianza, con etichette che restano appiccicate alla persona anche quando la sua storia di “malattia” o “delinquenza” si è ormai conclusa).

L’etichettamento produce nei confronti del Sé una “profezia che si autoadempie”, che è stata al centro di diversi studi, tra cui il più noto sul cosiddetto effetto Pigmalione, o effetto Rosenthal.

Erving Goffman

La natura fluida e sociale del Sé è ripresa da Erving Goffman alla fine degli anni Cinquanta. Da qui elabora la sua “prospettiva drammaturgica”, e studia le strategie attraverso cui il Sé viene presentato e mantenuto, sia nella vita di tutti i giorni, che in situazioni critiche che lo mettono a rischio[4].

Ne La vita quotidiana come rappresentazione, Goffman illustra la metafora della società come teatro, e del Sé come rappresentazione[5]

Una «rappresentazione» può essere definita come tutta quell’attività svolta da un partecipante in una determinata occasione e volta in qualche modo a influenzare uno qualsiasi degli altri partecipanti. […] Quando un individuo o un attore interpreta, in occasioni diverse, la stessa parte [o «routine»] di fronte allo stesso pubblico, è probabile che ne sorga un rapporto sociale.

Goffman (1959), p. 26

Il altre parole: “il self non è inerente alla persona, ma emerge da una situazione sociale”, così come il senso dell’azione non scaturisce dagli stati interni della persona, ma dalle situazioni che circondano l’azione stessa e permettono di attribuirle un senso nel contesto (Goffman, 1959).

Nel più classico degli esempi tratti dalla comunicazione, uno scambio verbale della vita quotidiana come il seguente[3]:

A: Ho un figlio di 14 anni

B. Bene!

A. Ho anche un cane

B: Eh, no, mi dispiace…

è del tutto incomprensibile, a meno di calarlo in un contesto che ci permetta di afferrare il significato dell’azione, come quello in cui B è un proprietario di casa e A un potenziale affittuario.

A dimostrare la pregnanza del contesto in relazione al mantenimento del Sé, Goffman va a ricercare alcuni casi limite all’interno delle cosiddette istituzioni totali. Le istituzioni totali sono “il luogo di residenza e lavoro di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo – si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato” (Goffman, 1961, p.29). Carceri, conventi, caserme e ospedali psichiatrici sono ambienti che hanno la capacità di modificare o addirittura neutralizzare il Sé.

Ricollegandosi alla teoria dell’etichettamento, Goffman ci dice che anche la percezione di “perdere il senno” è legata a stereotipi culturali e sociali, che attribuiscono un’importanza particolare a sintomi (udire voci, perdere l’orientamento spazio-temporale, avere la sensazione di essere inseguiti) che possono essere determinati da molte cause. E tuttavia la percezione dell3 altre e l’autopercezione riflessiva di noi stess3 ci fanno avvertire questi sintomi come appartenenti alla condizione di “perdere il senno”.

[…] l’ansia scatenata da questa percezione di e le strategie adottate per ridurla, non sono di per sé anormali, ma corrispondono esatta-mente a quelle che manifesterebbe chiunque appartenesse alla nostra cultura ed avvertisse di essere sul punto di perdere il senno. […] Per colui il quale sia giunto a considerarsi – in modo più o meno giustificato – come mentalmente squilibrato, l’entrata in ospedale psichiatrico può talvolta portare sollievo, forse, in parte, a causa della rapida trasformazione del suo status sociale: invece di essere, ai propri occhi, una persona discutibile che tenta di conservare il ruolo di persona integra, diventa una persona ufficialmente discussa ma che, ai propri occhi, non lo è poi tanto.

Goffman (1961), p. 158

Ecco che le persone internate, una volta iniziato l’adattamento, sviluppano meccanismi per difendersi dalla violenza perpetrata dall’istituzione totale nei confronti del Sé.

Il nuovo degente si trova completamente spogliato di ogni convinzione, soddisfazione e difesa abituali, soggetto com’è a una serie di esperienze mortificanti: impossibilitato a muoversi liberamente se non entro i limiti consentiti; costretto ad una vita in comune; sottomesso all’autorità di un’intera squadra di comandanti. È qui che si incomincia ad apprendere quanto sia limitata l’estensione entro la quale può essere mantenuto il concetto di sé, qualora l’insieme di sostegni abituale venga improvvisamente a mancare.

Goffman (1961), pp. 173-174

In seguito:

La carriera morale di un individuo di una data categoria sociale implica un susseguirsi standardizzato di mutamenti nel modo di giudicarsi illudendo – in maniera significativa – il modo di concepire il proprio . […] 

Nel ciclo normale di socializzazione seguito dall’adulto, ci si aspetta che dopo l’alienazione e la mortificazione, segua un nuovo insieme di credenze riguardo al mondo ed un nuovo modo di concepire se stessi.

Goffman (1961), pp. 193-194

Il Sé si manifesta quindi in stretta relazione con l’ambiente, che non è solo il luogo fisico, ma l’intera situazione, l’insieme di regole e abitudini, e le relazioni che intercorrono tra un individuo e tutti gli altri. Da questo ambiente emergono il ruolo che il soggetto è chiamato a interpretare e le tecniche che mette in atto per mantenere agli occhi degli altri la sua definizione della situazione.

Tornando alla metafora drammaturgica, in un contesto normale, cioè al di fuori delle istituzioni totali, i diversi palchi di cui è fatta la vita sociale consentono all’individuo di assumere diversi ruoli. Ciascunə interpreta una moltitudine di parti, e ogni singola performance deve essere credibile agli occhi del pubblico, che ha compreso lo scenario e può appurare la coerenza dell’attore con la situazione e con se stesso, ricorrendo anche alle impressioni che involontariamente lascia trasparire.

Il fatto che tutte le persone recitino di fronte alle altre è stato letto da alcuni autori con una connotazione morale, come l’impossibilità di conoscere il vero Sé, e dall’altra parte come l’impossibilità di agire in modo veramente libero e autodeterminato in qualsiasi relazione sociale. La persona che emerge dal discorso di Goffman, invece, è un insieme di tutte le maschere che indossa nella sua vita quotidiana, fatte in modo che al di sotto di ogni maschera se ne trovi un’altra, poi un’altra, e così via. Si produce quella Louis Althusser chiama surdeterminazione[6], e che in un dialogo aperto con la teoria del potere di Michel Foucault, diventa un meccanismo a due volti: da un lato produce l’assoggettamento al “potere di definire”, dall’altro assoggettando produce il soggetto.


Riferimenti:

[1] Darren O’BYRNE (2012) Sociologia. Fondamenti e teorie. Tr. it. a cura di S. Bernardini, Pearson, Milano – pp. 103-107

[2] Ota DE LEONARDIS (2001) Le Istituzioni. Come e perché parlarne, Carocci, Roma

[3] Nicoletta BOSCO (2013) Non si discute. Forme e strategie dei discorsi pubblici, Rosenberg & Sellier, Torino

[4] Erving GOFFMAN (1961) Asylum. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza. Tr. it. a cura di F. Basaglia, Einaudi, Torino

[5] Erving GOFFMAN (1959) La vita quotidiana come rappresentazione. Tr. it a cura di M. Ciacci, Il Mulino, Bologna

[6] Louis ALTHUSSER (1965) Contradiction et surdétermination (Notes pour une recherche), ed. It in volume in Per Marx. (Note per una ricerca), Editori Riuniti, Roma, 1974, pp. 69-82 – online su filosofia.it

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