📘 Racconti

Ogni riferimento

In queste brevi cronache c’è la politica e c’è il sesso; ci sono i corpi trans* e le impressioni collettive lasciate dal loro passaggio; ci sono esperienze che non possono essere descritte da una parola soltanto. Sono storie di movimento e di città, di ombelichi e di fiumi che decidono per sé. Sono tutte storie vere.

Ogni riferimento
    • Prologo: Un paio di occhiali e un foglio bianco

      Due premesse di metodo e una di merito.

      L’essay narrativo è un genere quasi del tutto ignorato nella produzione in italiano. In questa sperimentazione ho trovato grandissimɜ maestrɜ in autori e soprattutto autrici letterariɜ del peso di Virginia Woolf, Francis Scott Fitzgerald, Joan Didion e bell hooks.

      Paradossalmente, la svolta verso il racconto di realtà degli ultimi anni non ha portato a una rivalutazione dell’essay narrativo breve. Mi vengono in mente alcuni testi, usciti su rivista o in altre forme, che si avvicinano a quello che intendo, come ad esempio quelli raccolti in Medusa di Not, curata da De Giuli e Porcelluzzi. Ma ho scelto di non guardare, se non tangenzialmente, a questi testi perché ho la sensazione che il genere dell’essay narrativo possa troppo facilmente scivolare verso un formalismo tutto rivolto verso l’efficacia comunicativa. Senza nulla togliere a questi testi, che sono letture ricchissime di spunti sia formali che di contenuto, la mia idea è di approcciarmi all’essay con un occhio alla sostenibilità del gesto.

      Se la scrittura fa parte della vita quotidiana, una scrittura che mira sempre a costruire castelli finisce per esaurire il terreno a disposizione, insieme alle energie di chi scrive. Siccome non scrivo narrativa di professione, e non ho una vita così interessante da giustificare costruzioni straordinarie (e comunque non ne sarei capace), mi accontenterò di costruire capanne di fango. In generale, scrivo per porre domande, per fermare delle cose, e qualche volta anche per comunicare. Spero di non scivolare troppo nel formalismo, ma il rischio c’è sempre.

      * * *

      Veniamo alla questione degli occhiali.

      Non credo che basti una storia a raccontare la realtà. Per dirla radicalmente, non credo che qualsiasi cosa possa mai bastare a raccontare la realtà, se non la realtà stessa in scala uno a uno. Quello che vorrei fare qui è diverso: raccontare alcuni dettagli che fanno parte della realtà, inserendoli nel contesto che più verosimilmente può produrli, e cioè il contesto che in questa realtà li ha prodotti. Per amore di verosimiglianza, ho scelto di raccontare cose realmente successe, per poterle restituire con tutta la precisione che so metterci.

      Un’altra influenza viene dalla teoria dell’autoetnografia. Ma la ricerca sociale porta con sé anche una lezione aurea: per raccontarla vera è necessario un paio di occhiali abbastanza pesanti da non permetterti mai, neanche per un momento, di dimenticare che li hai sul naso. I miei filtri e le mie distorsioni sono nelle pagine tanto quanto il mondo che racconto. Forse anche di più.

      * * *

      Nel merito, ho da dire un’ultima cosa.

      In questi pezzi c’è politica e c’è sesso: ci sono discorsi sulla politica e sul sesso, corpi politici e corpi sessuali. C’è l’anarchismo; c’è gente trans* e queer; c’è Torino; ci sono sentimenti – anche sgradevoli; c’è da non dare niente per scontato; c’è una fastidiosa tendenza a relativizzare le cose e attribuire a ognunə le proprie ragioni (perfino ai fascisti); c’è un materialismo come porto e come bussola; c’è uno strano incanto in cui le cose inanimate agiscono proprio come me e te; ci sono un sacco di schwa, x, u eccetera.

      Spero con tuttə me stessə che leggerai questi pezzi con la più assoluta libertà. Come per il sesso e per la politica, se non puoi rifiutarti non puoi neanche scegliere di partecipare.

      * * *

    • Mia nonna è un fiume

      Una notte ho sognato che mia nonna mi portava a vedere il fiume. È sempre stata una donna riservata, capace di parlare per ore senza farti neanche sospettare l’importanza di quel che stava dicendo per lei stessa. Mia nonna era famosa per i suoi aneddoti sulla Seconda guerra mondiale, che aveva vissuto da bambina in una Milano dal volto grigio e fragile come un biscotto. I ricordi sgorgavano da lei con l’odore di gallina in gabbia e il rumore di un treno sovraffollato dove forse qualcuno si sarebbe alzato per cedere il posto a una bimba o forse no.

      Quando nel 2015 mi trasferii a Milano, scoprii che non aveva il colore e la consistenza che mi aspettavo. Era una città piena di luci e messe in scena, un posto in cui era facile vivere, anche per un topolino di provincia come me, dove potevi trovare spazi amici e storie abbastanza brevi, intense e desiderabili da darti l’impressione di aver vissuto una via piena, tutto sommato. Non riverberava nessun anelito di giustizia, né un ricordo dell’odore del sudore e della forza degli antifascisti in Piazzale Loreto; la stessa parola giustizia era fra i pochi severi tabù. Avevo trovato opportunità, trasformazione, Expo – mentre le parole di mia nonna erano pazienza e carità, ma soprattutto pazienza direi. Un gusto per la stasi di cui non era rimasta traccia.

      Erano passati settant’anni dal tempo dei suoi racconti. Galline in gabbia e treni sovraffollati, se mai c’erano stati, erano morte le une e dismessi gli altri; così come la nebbia, il senso di nazione, il brulichio industriale, i telefoni a disco, i dopolavoro, la lettera di arruolamento, il pane grigio al gusto di carestia, il clarinettista di corso Como che faceva le prove con la finestra aperta.

      Quel colore e quella consistenza che mi ero immaginato non solo se n’erano andati; forse ormai parlavano solo della misteriosa interiorità di mia nonna e della sua pratica di ripetere e ripetere storie di storia, sempre uguali a se stesse ma sempre un po’ diverse. Ovviamente fanno fede comunque, specie agli occhi di uno che non ha scrupoli a ribaltare le cose il di dentro di fuori per il gusto di lasciarle lì come la biancheria stesa e magari tornare qualche volta a scriverci un racconto sopra. Ma neanche lo scorrere del tempo usurava queste storie; qualcosa che cambia non esiste meno solo perché è destinata a cambiare.

      Una delle sorgenti del fiume Livenza si chiama Gorgazzo, che vuol dire letteralmente il maledetto gorgo, come nel racconto di Beppe Fenoglio. È costituito da un unico tunnel scavato nella roccia, di cui non si conosce la profondità né la forma esatta, e da lì esce il fiume. Dal punto di vista naturalistico è un posto molto interessante, sebbene sia quasi impossibile studiarlo, dopo che quindici anni di immersioni ci hanno lasciato con nove morti e poche informazioni. Comunque per me è sempre stato il posto dove si andava il venerdì pomeriggio dopo scuola, con mia nonna.

      Arrivavamo salendo a piedi dalla strada pedemontana asfaltata. Passavamo davanti a quello che allora era un negozio di miele artigianale, e fuori aveva affisso un cartonato altezza umana di un’ape regina un po’ kitsch. Si entrava poi nel parco, un sentiero di terra battuta tra aiuole ben curate da un lato, e dall’altro l’argine del fiume. Ci si avvicinava camminando in direzione contraria al suo corso, come per andare incontro alla sorgente, che era sepolta a meno millecinquecento metri sotto un lago, ma poiché io non lo sapevo, ho sempre pensato che quel lago fosse esso stesso la sorgente e che in generale le sorgenti avessero la forma di un laghetto profondo che esce fuori da sotto una montagna.

      Raramente veniva anche mio nonno; il più delle volte quelle gite avevano tanto più valore proprio perché lui non c’era. Portavamo in pane secco ai cigni e ai grossi pesci che abitavano il lago, e ci fermavamo a guardare in su verso la montagna coperta di vegetazione, forse anche per un’ora, non saprei dire. La cosa affascinante non erano tanto gli animali e le creature viventi, ma il fiume in sé.

      In fondo, mi chiedo adesso ripensandoci, cos’è un fiume? È l’acqua che scorre o è il letto su cui scorre, è una linea celeste sulla mappa oppure le alghe verdastre che crescono lì e non altrove e gli insetti che se ne nutrono? O forse è tutto questo, o niente di tutto ciò? Da bambino era perlopiù l’acqua, perciò mi sembra giusto dare credito anche a quella sensazione, che il fiume sia qualcosa che è sempre in viaggio, che tira dritto e non si ferma per nessuno.

      Stavamo a guardare il neonato fiume per un tempo che sembrava adeguato, e poi mia nonna decideva che era il momento di andare via e si andava via. Tornavamo giù lungo la strada di terra battuta, questa volta accompagnate dallo scorrere dell’acqua limpida e dalla direzione delle alghe verdi filamentose che ci indicavano la strada fino a valle. È di lì che si va, è così che si fa a vivere.

      * * *

    • Il tappo della lavabicchieri

      Uno: accendere le lampade che pendono da sopra il bancone del bar. Due: accendere le luci di servizio, le lucine arcobaleno sulle mensole e i neon che illuminano da sotto il piano di finta pietra del bancone. Tre: vuotare i bidoni del vetro, della carta straccia e della plastica usa e getta. Quattro: controllare che il frigo a colonna sia rifornito; va caricato di bibite in lattina, birra e bottiglie di prosecco, che servirle calde è una vergogna. Poi: inserire il tappo nel fondo della lavabicchieri e accenderla. Mentre si scalda, aprire la cassa: contare il fondo cassa dell’ultima volta, accendere il telefono di servizio e il pos; la cassa va incastrata sotto la spillatrice della birra, la cassetta delle monete sopra. Sette: pulire e disinfettare il piano di lavoro di alluminio e poi il bancone. Otto: aprire il vano degli alcolici, controllare che non sia finito niente, e poi disporre la linea sul piano di lavoro – da sinistra destra: acqua frizzante, topping, zuccheri e sciroppi, triple sec, tequila, gin, vodka, rum chiaro, rum scuro, Aperol e Campari, Martini Dry, vermut rosso, whisky, amari, grappa, sambuca e vini rossi a temperatura ambiente. In un bicchiere d’acqua mettere cucchiai, filtri, pinze e pestello. Ultimo: prendere il ghiaccio dal freezer a pozzo e metterlo in una ciotola di metallo.

      Tempo totale: 25 minuti. Ma io ce ne metto 10.

      Di solito chi arriva non sa che siamo volontariɜ. Alcunɜ si aspettano un servizio da cinque stelle su Trip Advisor. Nel tempo, qualcunɜ è perfino venutɜ a chiederci un lavoro. Sono persone LGBT che stanno a Torino da poco, e starebbero bene a lavorare in un posto come questo. Ma noi non siamo un locale, ho provato a dirglielo ogni volta, noi siamo un circolo. Ho sentito di qualche circolo che a fine serata passava 50 euro sotto banco allɜ baristɜ. Vorrei poter dire che queste forme di evasione sono la norma.

      Quando ho cominciato non sapevo distinguere un gin da un rum, non esagero. Mi trovavo di nuovo solə e sfaccendatə in una città sconosciuta e, proprio come la prima volta, avevo scelto la via delle associazioni. Prima avevo iniziato a frequentare le attività della domenica, un gruppo accogliente, in cui qualche persona trans già c’era. Dopo il lungo lockdown avevo cominciato ad andare anche alle serate, che erano sempre abbastanza intime da permettere a chiunque di parlare con chiunque. Io però spesso mi sentivo in soggezione: conoscevo due o tre persone della domenica, ma a tutte le altre mi sembrava di fare una pessima impressione. Durante le serate parlavo poco, e mi ritrovavo il più delle volte, volente o nolente, a starmene per i fatti miei.

      Sono convintə che buona parte dell’attivismo si regga su questo: il desiderio di rendersi utili, perfino indispensabili, per garantirsi l’accesso a degli spazi sociali. Col bar mi ero trovatə qualcosa di serio da fare, un pretesto per essere presente lì, incontestabilmente utile.

      Una cosa però non la sapevo. Torino non è Milano: ci ha provato, nei primi anni Duemila, ad attirare investimenti a pioggia e privatizzare tutto il possibile, ma ha fallito. O meglio, ci è riuscita, alla fine, ma la strada è stata più lunga. Servivano altre forze, attori intermedi: all’inizio la si è chiamata società civile, o un rassicurante non profit, poi un più modesto terzo settore. Fatto sta che tutti i buchi lasciati dallo Stato, dal welfare e dalla Fiat li abbiamo riempiti noi, le associazioni. Spazi artistici, spazi culturali, spazi di aggregazione, doposcuola, palestre, corsi di lingua, inserimento lavorativo, prevenzione e assistenza sanitaria, accesso alla casa, supporto a ogni forma di minoranze che sia mai stata nominata in un bando dell’Unione Europea (incluse ovviamente le persone LGBT). Qui ci siamo noi: perché a un certo punto li hanno considerati lavori di pubblica utilità, ma non abbastanza da permetterci di retribuirli.

      In compenso, in quella postura di funzione al di là del bancone, tendevo a piacere allɜ altrɜ. Col tempo imparavo a concedermi un po’ di più. Ero sempre servizievole, prontə a risolvere un problema, che fosse un cambio di banconote o un bidone da vuotare. Conoscevo un po’ tuttɜ lɜ altrɜ volontariɜ, e a un certo punto avevano cominciato a fidarsi di me.

      C’era un responsabile, in quel periodo, che era già quasi pronto a lasciare il posto. Mi chiese di incontrarci. Me la ricordo come una sera fredda e rumorosa, eravamo seduti all’aperto, ai tavolini di un bar del quartiere; ci eravamo detti che ci andava di bere uno spritz fatto da qualcun altrə, una volta tanto. Mi disse che si sarebbe trasferito all’estero (cosa che sapevo già), e che cercava una persona che prendesse il ruolo di coordinamento del bar. Mi chiese se potevo essere io.

      Dal profondo pensavo no, ma l’unica risposta che potevi dire a voce alta era sì, al limite sì ma…

      Tolte le case in cui ho abitato e le scuole elementari a tempo pieno, il bar del circolo è verosimilmente il posto in cui ho passato più ore nella mia vita. È aperto circa tre sere a settimana, e ci diamo i turni tra cinque, massimo otto persone volontarie, ma da quando ho iniziato non mi ricordo di essere mai statə una settimana intera lontano dal bancone o dalla fornitura degli alcolici.

      Ma allora perché lo fai?

      Perché serve, perché qualcuno lo deve pur fare. Per partecipare alle serate e conoscere la gente. Qualunque risposta non esaurisce la domanda. C’è anche un gradino, non solo metaforico, su cui stai in piedi quando sei dietro il bancone del bar. Da lì sei in controllo della situazione, decidi tu quando accogliere le interazioni e quando non farlo; puoi fermarti a chiacchierare oppure mostrarti impegnatə e interrompere una conversazione senza bisogno una scusa. È un po’ il tuo ruolo, la tua recita, che inizia quando accendi le lampade colorate che pendono sopra il bancone, e finisce quando si spengono come i fari sopra il proscenio.

      Ci sono delle cose, come il lungo tappo cilindrico della lavabicchieri, che hanno la forma di una sicurezza, e quasi mi sorprende di non poter risolvere le cose così. Quando la Dora esonda e il quartiere di Aurora si allaga che sembra Venezia, ma senza niente di romantico, al buio e con la pioggia che scende fitta, mi immagino da solə sul lungo fiume, umile eroə con in mano il tappo della lavabicchieri. Ci sarà un posto dove infilarlo per risolvere tutto, no?

      A volte invece mi trovo a pensarla diversa. Durante le serate, quando chiacchiero con la gente – gente bellissima e famigliare con cui si scherza tutto il tempo, in un discorso sempre aperto che si arricchisce di settimana in settimana – e perfino con lɜ estraneɜ, all’improvviso mi guardo dall’esterno. Ciò che è estorto, penso, resterà estorto per sempre. Le parole di circostanza, certe amicizie flessibilissime, quella fiducia che nasceva dalla necessità. Qualcunə ha detto che il contrario di fiducia non è sospetto, ma sicurezza.

      A forzare la mano succede questo: rimani col dubbio di essere dalla parte del torto, ma anche di essere ancora quel personaggio bizzarro e silenzioso, con in mano il tappo della lavabicchieri, mentre cerca intorno a sé un problema da risolvere. E infine ripone il tappo sulla mensola, prima di spegnere le luci che pendono sopra il bancone di finta pietra, che in realtà è cemento ricoperto da uno strato di linoleum che sta iniziando a staccarsi.

      * * *

    • Una bicicletta di nome Oscar

      Il cortile sembra di un condominio del Bronx, con i terrazzi degli appartamenti che affacciamo all’interno su uno spiazzo enorme dove l’erba non cresce neanche. Ci sono due poliziotti in un terrazzo al pianterreno che mi guardano male quando mi avvicino. Poi finalmente scende N. e mi indica la bicicletta. È così messa male che dalla foto non l’avevo neanche riconosciuta. Ha il telaio giallo ocra, le gomme di due colori diversi e dei pezzi di nastro adesivo fucsia intorno al manubrio e alla sella.

      «Ha il freno davanti staccato,» mi dice, «ma c’è un biciclettaio qui in corso Palermo che te la ripara con poco.»

      Me la fa provare. Certo, non frena, ma per il resto cammina benone. D’accordo, con sessanta euro mi porto a casa la bici e pure la catena.

      Mentre la spingo sul marciapiede penso che era esattamente quello che cercavo da settimane e non riuscivo a trovare: una bicicletta solida, veloce e soprattutto economica. Colpa mia, che non mi sono mai convinto a svegliarmi presto il sabato per andare al Balôn prima che tutte le bici decenti se le siano prese.

      Mentre torno la provo di nuovo, con solo il freno posteriore. Penso a quanto sono fortunato, e che Granovetter aveva proprio ragione sulla forza dei legami deboli (perché, anche se frequentiamo gli stessi posti, N. l’avrò visto in totale quattro volte).

      Solo alla fine corso Giulio butto un occhio, e mi accorgo che la forcella che collega il telaio alla ruota anteriore è spezzata.

      «Ma è riparabile?»

      Il giorno dopo mi sono fermato da Beppe della ciclofficina Cycles, sul Lungo Dora. È quasi il tramonto, lui ha molto lavoro e comunque in generale è un tipo un po’ burbero. Sulla bicicletta ci sono andato in giro tutta la mattina, sfidando la sorte e ignorando rumori ambigui e strani saltelli, e nel frattempo finisce che mi ci sono affezionato.

      «Me l’hanno lasciata in questo stato, ma a buttarla mi dispiace…»

      Beppe è un tipo giovane, coi ricci afro e sempre i guanti da lavoro. La guarda un po’ da vicino. «È una bella bicicletta, non va buttata,» mi dice. «Però ci va tanto lavoro…»

      «Tipo?»

      «Una sessantina di euro… a trovare la forcella e tutto, almeno quattro giorni.»

      «E va be’» – che poi a questo punto sarei disposto a mettercene su anche centocinquanta di euro ma ovviamente non glielo dico. Non vuole un acconto, non vuole niente, se non mettere in chiaro che io di biciclette non ne capisco nulla (che è assolutamente vero, tanto più che l’ho comprata).

      Me ne vado via a piedi per il lungo Dora, sollevato come se volassi, e sono impaziente di girare col nastro adesivo fucsia da tutte le parti. Tutto si ripara alla fine. Un po’ come quei giapponesi che mettono l’oro nel vasellame rotto. Non è tanto il risultato, quanto l’investimento.

      In fondo è un po’ come Wiz, che è il mio computer. Oggi ci lavoro tutti i giorni, è adatto a me, ai miei gesti e alle mie scorciatoie mentali. Ma quando è arrivato, nell’estate nel 2023, era solo una bizzarra macchina ricondizionata, con una RAM esagerata e uno schermo touchscreen imperfetto e del tutto superfluo. Per di più, la batteria era stata montata fuori posto, e sono occorsi un po’ di tentativi per riuscire se non altro ad accenderlo. Poi, sul più bello che avevo installato il sistema operativo, avevo scoperto di un raro problema di kernel che alcune macchine potevano incontrare con la mia distro di Linux.

      «Ma è riparabile?» mi chiedevo, perché non avevo nessun altro a cui chiederlo. Per una settimana avevo pensato che fosse insalvabile. Di nuovo colpa mia e della mia poca pazienza. Ema, che con internet è zen, era riuscitə a trovare su un forum uno che aveva avuto lo stesso problema e che si era inventato lì per lì una soluzione. Questo mi aveva salvato il computer e mi aveva definitivamente convinto della tesi di Ivan Illich sul potere della comunità di fare a meno del giudizio degli esperti. Insomma, dopo momenti di panico ce l’eravamo cavata bene.

      Solo adesso mi torna in mente che, una volta riparato, uno dei nomi che avevo pensato di dare al computer era Oscar.

      * * *

    • Ginecologia

      La verità è che lo speculum riguarda la politica, non la medicina. Tanto più che, per sua stessa ammissione, la medicina non vuole aver niente a che fare con la politica.

      Senza averne mai visto uno, lo speculum mi evoca l’idea di assemblee partecipate da giovani donne di ogni estrazione, alcune con ampie gonnellone ricamate, altre alla moda delle studentesse universitarie, che leggono Audrey Lorde e si incontrano il giovedì sera negli spazi comunitari tappezzati di locandine con fiori e altri clitoridi litografati. Mi evoca un senso di madri e zie che, insieme tra loro e con lo speculum si ritrovavano a produrre saperi e a concepire noi femministe del domani.

      Proprio per questo suo ruolo di padre politico, mai mi sarei aspettato di avere poi a che fare con uno speculum vero e proprio, in carne ed ossa per così dire, e nella fattispecie uno speculum giallo. Come ho detto, io non l’ho visto, ma la dottoressa era molto convinta che dovesse trattarsi proprio di quello giallo, mentre dava istruzioni a un’infermiera di mezz’età molto perplessa.

      Nella sala d’aspetto ci sono solo coppie: la maggior parte sono formate da un uomo e una donna di età simile e simile stile; altre sono chiaramente madre e figlia. Le donne sotto i cinquanta sono in larga maggioranza incinte. Tutte hanno con sé una spessa cartella clinica color verdino col logo della Regione Piemonte e un’orribile disegnetto che vorrebbe essere la curva stilizzata di un pancione. Alcune ci guardano, ma sono più che altro i papà a mandarci occhiate curiose. È per via del passing, sembriamo due uomini in una sala d’attesa di ginecologia.

      Poi mi chiamano in un’altra sala, l’ultima prima dell’ambulatorio. Qui sono tutte donne (per quel che ne posso sapere), che già mi rende un po’ strano. Ma poi anche l’infermiera, che mi costringe a dichiarare a voce alta il nome e cognome scritti sul mio tesserino sanitario. Poi lo richiede di nuovo, prima di capire che no, non c’è l’errore, sono la stessa persona per cui è prenotato, la stessa che deve fare la visita ginecologica, e lo so che ho la barba, mi pare evidente, ma questo non esclude che possa avere anche il cancro alle ovaie o che ne so.

      L’ambulatorio è spoglio e quasi macabro, non ci sono poster litografati né femministe nere. La dottoressa mi fa delle domande

      Leggo tra le righe: “Come mai è qui?”. Perché ho l’utero direi.

      Ma forse me lo sto immaginando io, allora le dico che devo fare il pap test, e che mi fanno male i rapporti penetrativi. Non le dico che non mi importa granché, perché è da quando sono entrato in ambulatorio che penso magari questa volta scopro come mai, e adesso sono curioso.

      Impassibile, lei mi risponde. «È normale, con il testosterone, provare un po’ di secchezza vaginale. Le scrivo il nome di alcuni lubrificanti che può provare.»

      Solo che io ho detto dolore, non secchezza, e dopo ventisette anni di vagina conosco la differenza. Sto per dirle che no, non è normale, ma poi penso dai stai zitto questa volta, un po’ perché la dottoressa mi sembra gentile, e un po’ perché ho paura che mi renderebbe la visita il più dolorosa possibile per vendicarsi e ricordarmi chi ha bisogno di chi.

      Intanto l’infermiera non ha smesso un attimo di fissarmi. Mi spoglio e mi fissa, mi siedo e mi fissa. Si volta solo un momento quando la dottoressa le chiede di andare a prendere lo speculum giallo, quello piccolo. Poi torna e mi fissa ancora.

      Me ne sto lì con il cazzo per aria e l’infermiera cinquantenne che mi fissa, e dentro di me penso, d’accordo che è il più grosso che sia mai entrato in questo ambulatorio, ma non mi sembra cortese. La parte peggiore comunque è farsi grattare via un pezzo di parete dell’utero, cosa che sarà anche necessaria, ma dopo più di trecento anni di scienza non capisco com’è che non abbiamo trovato un altro modo. Ci sono delle scoperte che ha senso fare, e altre che non ne vale la pena. In fondo, a pensarci, solo metà della popolazione ha un utero, e di questa importa solo quella di età compresa tra i venti e i trentacinque o quarant’anni, e comunque anche di queste non si può dire veramente che abbiano un utero, più che altro lo portano in giro come servizio per la collettività. Che poi non è un problema di per sé, certo che procreare è anche un servizio alla collettività, come consegnare la posta (non a caso si dice to deliver). Solo che è proprio un po’ come fare la postina: quando lo fai è importante socialmente, ma non è che lo devono fare tutte. Se non ti va farai qualcos’altro.

      Prendi me: ho un utero e ho ventotto anni, perfettamente in tempo. Solo che non sono portato. E poi penso che se diventassi incinto mi chiamerebbero da Canale Cinque.

      «Il suo utero è minuscolo,» dice la dottoressa, che una volta finito di grattare e riposto lo speculum giallo, è passata all’ecografia. Poi si sposta. «Anche le ovaie.»

      Non so cosa dire. Grazie? Mi spiace? Guardi che se dice così le offende? Io sono ancora senza mutande e l’infermiera ancora che mi fissa. Chissà, forse in un’altra vita il mio utero avrebbe avuto una possibilità di essere importante anche lui, almeno una volta, pure senza andare a Canale Cinque.

      Una volta finito e rivestito la dottoressa gentile mi dà la cartella. Per il referto del pap test deve tornare, mi dice, venga con me. Usciamo dall’ambulatorio e fuori c’è Ema che mi aspetta. Andiamo in un altro reparto, in una palazzina diversa dell’ospedale. La dottoressa entra in una stanza e ci chiede di aspettare fuori. Poi mi fa entrare e trovo un’altra infermiera, più vecchia della prima.

      «Per ritirare il referto deve venire qui tra un mese,» dice, «chieda pure di me, tanto mi ricordo di lei.»

      Grazie?

      «Buona giornata,» e ce ne andiamo.

      Mi spiace perché l’unica cosa utile, a livello politico intendo, era vedere dal vivo uno speculum, e invece niente. Me ne torno a casa con un paio di marche di lubrificante e la consapevolezza di avere un utero minuscolo. Fuori dall’ospedale è una bella giornata.

      Ema pensa: ma che cazzo di umore hai oggi? ma non osa chiedermelo. Poi ricominciamo a parlare di politica.

      * * *

    • Occupare tutto

      Venerdì 7 marzo 2024

      In città ci guardano, schive e mute, mentre ci sediamo con ostinazione nel centro delle piazze che sono diventate rondò a viabilità accelerata. Mentre volgiamo gli occhi dall’altra parte, e anche le orecchie, come gatte, per non ascoltare i discorsi sconci della vecchia classe operaia in esubero, che sta coi culi in esubero sulle panchine incise, a condividere persistenti accenti del sud.

      L’aria è il traffico, gli autobus sono troppo grossi per questa piccola rotonda; alzi gli occhi e ti accorgi che ti guardano tutt3, di nascosto, dai dehor di plexiglas della condivisione a pagamento che restringono ulteriormente la piazza su due lati; vecchie signore e zarri dabbene della periferia, si incontra lo status di popolazioni incomprensibili.

      Una donna si siede vicino, i ragazzini si danno a vicenda del morto di figa, Porta Palazzo, accento napoletano, un giovane al telefono in una lingua che non so. Le cabine del telefono qui ci sono, non è che manchino, però hanno il cartello che dice “questa postazione sarà dimessa”, che vuol dire sbrigati a chiamare chiunque sia che ti sta a cuore. Cambia il paesaggio sotto lo sguardo di nessuno.

      Qualche giorno fa ho avuto una visione. Avevano dismesso le onde elettromagnetiche – quelle della comunicazione intendo. Il filo fisico era di nuovo nelle nostre vite, e senza non potevamo più fare nulla. Pensa che fregatura sarebbe, per chi si è girato tutta la città, forse tutto lo stato, per mettere i cartelli che dicono “questa postazione sarà dimessa”. Vecchio sogno punk tra le parole della gente, perché dopo dieci minuti che sono qui la piazza è piena di persone sedute con me.

      Se stessi qui un’ora riempiremmo le panche, il gradino del marciapiede, straborderemmo in strada. Coi nostri corpi bloccheremmo il traffico; in un giorno ci prenderemmo la città, occuperemmo tutto.

      Anche domani i nostri corpi saranno marea, invaderanno tutti insieme la strade bagnate, e non saranno qui per dieci minuti e nemmeno per un’ora. Verranno per restare, fino a quando non avremo imparato a riconoscerci a vicenda, a difenderci a vicenda, e ci saluteremo al ciglio dei viali che saranno solo nostri. Queste formazioni non hanno nome. Non si chiamano classe, né famiglia, non sono neanche società. Comunità è la parola che uso in mancanza d’altro. Serve a dire cosa succede quando ti siedi per un’ora in una piazza sconosciuta di periferia, e forse a qualcuno inizi a ispirare fiducia. Le donne, gli operai, un ragazzo che scrive. Mi ero seduta con l’intento di leggere Foucault, ma ho capito che leggere in pubblico non sta bene. Gli zarri, gli autobus, le cabine telefoniche. Il paesaggio che cambia, la piazza è un caleidoscopio.

      Mi ero seduta per autolegittimarmi nell’attesa, perché sedersi nella piazza è un gesto politico. Oggi siamo in due, domani saremo marea, ma voglio promettere, sento che posso giurarlo, che un giorno di questi i nostri corpi saranno milioni, saranno liberi di sedersi e leggere Foucault. Un giorno di questi, giuro, occuperemo tutto.

      * * *