Ginecologia

La verità è che lo speculum riguarda la politica, non la medicina. Tanto più che, per sua stessa ammissione, la medicina non vuole aver niente a che fare con la politica.

Senza averne mai visto uno, lo speculum mi evoca l’idea di assemblee partecipate da giovani donne di ogni estrazione, alcune con ampie gonnellone ricamate, altre alla moda delle studentesse universitarie, che leggono Audrey Lorde e si incontrano il giovedì sera negli spazi comunitari tappezzati di locandine con fiori e altri clitoridi litografati. Mi evoca un senso di madri e zie che, insieme tra loro e con lo speculum si ritrovavano a produrre saperi e a concepire noi femministe del domani.

Proprio per questo suo ruolo di padre politico, mai mi sarei aspettato di avere poi a che fare con uno speculum vero e proprio, in carne ed ossa per così dire, e nella fattispecie uno speculum giallo. Come ho detto, io non l’ho visto, ma la dottoressa era molto convinta che dovesse trattarsi proprio di quello giallo, mentre dava istruzioni a un’infermiera di mezz’età molto perplessa.

Nella sala d’aspetto ci sono solo coppie: la maggior parte sono formate da un uomo e una donna di età simile e simile stile; altre sono chiaramente madre e figlia. Le donne sotto i cinquanta sono in larga maggioranza incinte. Tutte hanno con sé una spessa cartella clinica color verdino col logo della Regione Piemonte e un’orribile disegnetto che vorrebbe essere la curva stilizzata di un pancione. Alcune ci guardano, ma sono più che altro i papà a mandarci occhiate curiose. È per via del passing, sembriamo due uomini in una sala d’attesa di ginecologia.

Poi mi chiamano in un’altra sala, l’ultima prima dell’ambulatorio. Qui sono tutte donne (per quel che ne posso sapere), che già mi rende un po’ strano. Ma poi anche l’infermiera, che mi costringe a dichiarare a voce alta il nome e cognome scritti sul mio tesserino sanitario. Poi lo richiede di nuovo, prima di capire che no, non c’è l’errore, sono la stessa persona per cui è prenotato, la stessa che deve fare la visita ginecologica, e lo so che ho la barba, mi pare evidente, ma questo non esclude che possa avere anche il cancro alle ovaie o che ne so.

L’ambulatorio è spoglio e quasi macabro, non ci sono poster litografati né femministe nere. La dottoressa mi fa delle domande

Leggo tra le righe: “Come mai è qui?”. Perché ho l’utero direi.

Ma forse me lo sto immaginando io, allora le dico che devo fare il pap test, e che mi fanno male i rapporti penetrativi. Non le dico che non mi importa granché, perché è da quando sono entrato in ambulatorio che penso magari questa volta scopro come mai, e adesso sono curioso.

Impassibile, lei mi risponde. «È normale, con il testosterone, provare un po’ di secchezza vaginale. Le scrivo il nome di alcuni lubrificanti che può provare.»

Solo che io ho detto dolore, non secchezza, e dopo ventisette anni di vagina conosco la differenza. Sto per dirle che no, non è normale, ma poi penso dai stai zitto questa volta, un po’ perché la dottoressa mi sembra gentile, e un po’ perché ho paura che mi renderebbe la visita il più dolorosa possibile per vendicarsi e ricordarmi chi ha bisogno di chi.

Intanto l’infermiera non ha smesso un attimo di fissarmi. Mi spoglio e mi fissa, mi siedo e mi fissa. Si volta solo un momento quando la dottoressa le chiede di andare a prendere lo speculum giallo, quello piccolo. Poi torna e mi fissa ancora.

Me ne sto lì con il cazzo per aria e l’infermiera cinquantenne che mi fissa, e dentro di me penso, d’accordo che è il più grosso che sia mai entrato in questo ambulatorio, ma non mi sembra cortese. La parte peggiore comunque è farsi grattare via un pezzo di parete dell’utero, cosa che sarà anche necessaria, ma dopo più di trecento anni di scienza non capisco com’è che non abbiamo trovato un altro modo. Ci sono delle scoperte che ha senso fare, e altre che non ne vale la pena. In fondo, a pensarci, solo metà della popolazione ha un utero, e di questa importa solo quella di età compresa tra i venti e i trentacinque o quarant’anni, e comunque anche di queste non si può dire veramente che abbiano un utero, più che altro lo portano in giro come servizio per la collettività. Che poi non è un problema di per sé, certo che procreare è anche un servizio alla collettività, come consegnare la posta (non a caso si dice to deliver). Solo che è proprio un po’ come fare la postina: quando lo fai è importante socialmente, ma non è che lo devono fare tutte. Se non ti va farai qualcos’altro.

Prendi me: ho un utero e ho ventotto anni, perfettamente in tempo. Solo che non sono portato. E poi penso che se diventassi incinto mi chiamerebbero da Canale Cinque.

«Il suo utero è minuscolo,» dice la dottoressa, che una volta finito di grattare e riposto lo speculum giallo, è passata all’ecografia. Poi si sposta. «Anche le ovaie.»

Non so cosa dire. Grazie? Mi spiace? Guardi che se dice così le offende? Io sono ancora senza mutande e l’infermiera ancora che mi fissa. Chissà, forse in un’altra vita il mio utero avrebbe avuto una possibilità di essere importante anche lui, almeno una volta, pure senza andare a Canale Cinque.

Una volta finito e rivestito la dottoressa gentile mi dà la cartella. Per il referto del pap test deve tornare, mi dice, venga con me. Usciamo dall’ambulatorio e fuori c’è Ema che mi aspetta. Andiamo in un altro reparto, in una palazzina diversa dell’ospedale. La dottoressa entra in una stanza e ci chiede di aspettare fuori. Poi mi fa entrare e trovo un’altra infermiera, più vecchia della prima.

«Per ritirare il referto deve venire qui tra un mese,» dice, «chieda pure di me, tanto mi ricordo di lei.»

Grazie?

«Buona giornata,» e ce ne andiamo.

Mi spiace perché l’unica cosa utile, a livello politico intendo, era vedere dal vivo uno speculum, e invece niente. Me ne torno a casa con un paio di marche di lubrificante e la consapevolezza di avere un utero minuscolo. Fuori dall’ospedale è una bella giornata.

Ema pensa: ma che cazzo di umore hai oggi? ma non osa chiedermelo. Poi ricominciamo a parlare di politica.

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Stefano Zuliani (lui/ləi)

Sono uno studente di Sociologia, un copywriter freelance e un attivista eco/queer. Scrivo narrativa breve e articoli di politica, cultura e benessere digitale. Scrivo compulsivamente perché ho una pessima memoria. Non a caso il mio genere è il memoire.

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