Mia nonna è un fiume

Una notte ho sognato che mia nonna mi portava a vedere il fiume. È sempre stata una donna riservata, capace di parlare per ore senza farti neanche sospettare l’importanza di quel che stava dicendo per lei stessa. Mia nonna era famosa per i suoi aneddoti sulla Seconda guerra mondiale, che aveva vissuto da bambina in una Milano dal volto grigio e fragile come un biscotto. I ricordi sgorgavano da lei con l’odore di gallina in gabbia e il rumore di un treno sovraffollato dove forse qualcuno si sarebbe alzato per cedere il posto a una bimba o forse no.

Quando nel 2015 mi trasferii a Milano, scoprii che non aveva il colore e la consistenza che mi aspettavo. Era una città piena di luci e messe in scena, un posto in cui era facile vivere, anche per un topolino di provincia come me, dove potevi trovare spazi amici e storie abbastanza brevi, intense e desiderabili da darti l’impressione di aver vissuto una via piena, tutto sommato. Non riverberava nessun anelito di giustizia, né un ricordo dell’odore del sudore e della forza degli antifascisti in Piazzale Loreto; la stessa parola giustizia era fra i pochi severi tabù. Avevo trovato opportunità, trasformazione, Expo – mentre le parole di mia nonna erano pazienza e carità, ma soprattutto pazienza direi. Un gusto per la stasi di cui non era rimasta traccia.

Erano passati settant’anni dal tempo dei suoi racconti. Galline in gabbia e treni sovraffollati, se mai c’erano stati, erano morte le une e dismessi gli altri; così come la nebbia, il senso di nazione, il brulichio industriale, i telefoni a disco, i dopolavoro, la lettera di arruolamento, il pane grigio al gusto di carestia, il clarinettista di corso Como che faceva le prove con la finestra aperta.

Quel colore e quella consistenza che mi ero immaginato non solo se n’erano andati; forse ormai parlavano solo della misteriosa interiorità di mia nonna e della sua pratica di ripetere e ripetere storie di storia, sempre uguali a se stesse ma sempre un po’ diverse. Ovviamente fanno fede comunque, specie agli occhi di uno che non ha scrupoli a ribaltare le cose il di dentro di fuori per il gusto di lasciarle lì come la biancheria stesa e magari tornare qualche volta a scriverci un racconto sopra. Ma neanche lo scorrere del tempo usurava queste storie; qualcosa che cambia non esiste meno solo perché è destinata a cambiare.

Una delle sorgenti del fiume Livenza si chiama Gorgazzo, che vuol dire letteralmente il maledetto gorgo, come nel racconto di Beppe Fenoglio. È costituito da un unico tunnel scavato nella roccia, di cui non si conosce la profondità né la forma esatta, e da lì esce il fiume. Dal punto di vista naturalistico è un posto molto interessante, sebbene sia quasi impossibile studiarlo, dopo che quindici anni di immersioni ci hanno lasciato con nove morti e poche informazioni. Comunque per me è sempre stato il posto dove si andava il venerdì pomeriggio dopo scuola, con mia nonna.

Arrivavamo salendo a piedi dalla strada pedemontana asfaltata. Passavamo davanti a quello che allora era un negozio di miele artigianale, e fuori aveva affisso un cartonato altezza umana di un’ape regina un po’ kitsch. Si entrava poi nel parco, un sentiero di terra battuta tra aiuole ben curate da un lato, e dall’altro l’argine del fiume. Ci si avvicinava camminando in direzione contraria al suo corso, come per andare incontro alla sorgente, che era sepolta a meno millecinquecento metri sotto un lago, ma poiché io non lo sapevo, ho sempre pensato che quel lago fosse esso stesso la sorgente e che in generale le sorgenti avessero la forma di un laghetto profondo che esce fuori da sotto una montagna.

Raramente veniva anche mio nonno; il più delle volte quelle gite avevano tanto più valore proprio perché lui non c’era. Portavamo in pane secco ai cigni e ai grossi pesci che abitavano il lago, e ci fermavamo a guardare in su verso la montagna coperta di vegetazione, forse anche per un’ora, non saprei dire. La cosa affascinante non erano tanto gli animali e le creature viventi, ma il fiume in sé.

In fondo, mi chiedo adesso ripensandoci, cos’è un fiume? È l’acqua che scorre o è il letto su cui scorre, è una linea celeste sulla mappa oppure le alghe verdastre che crescono lì e non altrove e gli insetti che se ne nutrono? O forse è tutto questo, o niente di tutto ciò? Da bambino era perlopiù l’acqua, perciò mi sembra giusto dare credito anche a quella sensazione, che il fiume sia qualcosa che è sempre in viaggio, che tira dritto e non si ferma per nessuno.

Stavamo a guardare il neonato fiume per un tempo che sembrava adeguato, e poi mia nonna decideva che era il momento di andare via e si andava via. Tornavamo giù lungo la strada di terra battuta, questa volta accompagnate dallo scorrere dell’acqua limpida e dalla direzione delle alghe verdi filamentose che ci indicavano la strada fino a valle. È di lì che si va, è così che si fa a vivere.

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Stefano Zuliani (lui/ləi)

Sono uno studente di Sociologia, un copywriter freelance e un attivista eco/queer. Scrivo narrativa breve e articoli di politica, cultura e benessere digitale. Scrivo compulsivamente perché ho una pessima memoria. Non a caso il mio genere è il memoire.

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