Ivan Illich odiava le tecnologie, tutte: dal computer fino alla macchina a vapore. Forse più che odiarle le temeva; temeva di rendersi dipendente dagli esperti che le conoscono e dalle fonti di energia che le alimentano. Per questo aveva un’opinione tutto sommato buona della bicicletta. Per questo, e anche perché non ha mai visto la mia.
Il cortile sembra di un condominio del Bronx, con i terrazzi degli appartamenti che affacciamo all’interno su uno spiazzo enorme dove l’erba non cresce neanche. Ci sono due poliziotti in un terrazzo al pianterreno che mi guardano male quando mi avvicino. Finalmente scende N. e mi indica la bicicletta. È messa così male che dalla foto non l’avevo neanche riconosciuta. Telaio Scott giallo ocra, le gomme di due colori diversi, strisce di nastro adesivo magenta intorno al manubrio e alla sella.
«Ha il freno davanti staccato,» mi dice, «ma c’è un biciclettaio qui in corso Palermo che te la ripara con poco.»
Me la fa provare. Certo non frena, ma per il resto cammina benone. D’accordo, con sessanta euro mi porto a casa la bici e pure il lucchetto.
Mentre la spingo sul marciapiede penso che era esattamente quello che cercavo da settimane e non riuscivo a trovare: una bicicletta solida, veloce e soprattutto economica. Colpa mia, che non mi sono mai convintə a svegliarmi presto il sabato per andare al mercato del Balôn prima che tutte le bici decenti se le fossero prese.
Ho imparato tardi ad andare in bicicletta, a otto o nove anni. La mia migliore amica, che era ben quattro mesi più giovane, mi sfotteva correndo su e giù per il vialetto con la sua bicicletta nuova fiammante, e io dietro, in sella alla sua vecchia biciclettina con ancora le rotelle di sicurezza.
A posteriori, mi rendo conto di come sia la mia amica che Ivan Illich avessero ragione. La bicicletta è uno straordinario veicolo di libertà. Per un verso ti lega all’ambiente, ti espone al rischio e alla presenza dell’inevitabile ed enigmatico altro, che sia umano, non umano o atmosferico. Ma è anche la maniera più immediata di vivere un certo tipo di socialità, quella abbastanza ampia e variegata da avere bisogno di diversi spazi in cui svilupparsi, ma intima da consentire uno spostamento quotidiano e del tutto indipendente. Né la famiglia, né la vacanza, ma una vita che scorre nel mezzo. Allargare le sfere sociali quel tanto che basta a potersi ancora sorprendere; comprimere le distanze, ma non troppo da perdere la misura e il rispetto per lo spazio.
Mentre provo di nuovo la bici, con solo il freno posteriore, penso a quanto sono fortunato. Penso anche che Granovetter aveva proprio ragione sulla forza dei legami deboli, perché, anche se frequentiamo gli stessi posti, con N. ci avevo parlato sì e no quattro volte.
Pedalando giulivə, prendo un paio di buche, tutto trema, rischio di schiantarmi. Solo alla fine corso Giulio butto un occhio giù al telaio. E lì me ne accorgo: la forcella che collega il telaio alla ruota anteriore è spezzata.
«Ma è riparabile?»
Il giorno dopo mi sono fermatə da Beppe della ciclofficina Cycles, sul Lungo Dora. È quasi il tramonto, lui ha molto lavoro e comunque in generale è un tipo scontroso. Sulla bicicletta ci sono andatə in giro tutta la mattina, ignorando rumori ambigui, sopravvivendo a sbandate e strani saltelli. Nel frattempo mi ci sono affezionato.
«Me l’hanno lasciata in questo stato, ma a buttarla mi dispiace…»
Beppe è giovane, coi ricci afro e i guanti da lavoro. La guarda un po’ da vicino. «È una bella bicicletta, non va buttata,» mi dice. «Però ci va tanto lavoro…»
«Tipo?»
«Una sessantina di euro… a trovare la forcella e tutto, almeno quattro giorni.»
«E va be’» — che a questo punto sarei disposto a mettercene su anche centocinquanta di euro, ma ovviamente me lo tengo per me. Non vuole un acconto, non vuole niente, se non mettere in chiaro che lui è quello col buon senso, mentre io di biciclette non ne capisco niente (che è assolutamente vero, tanto più che l’ho comprata, non “me l’hanno lasciata”).
Me ne vado via a piedi sul lungo Dora, sollevatə come se volassi, e sono impaziente di girare col nastro adesivo fucsia da tutte le parti. Tutto si ripara alla fine. Un po’ come quei giapponesi che mettono l’oro nel vasellame rotto. Non è tanto il risultato, quanto l’investimento.
Prima ho detto che a Illich non piacevano i computer. Ecco, in realtà non ne sono così convintə. Il mio computer si chiama Wiz, e non voglio dire che siamo inseparabili, ma certamente siamo una delle coppie migliori che io conosca. La nostra relazione però non è stata una questione di oroscopi e affinità elettive.
Quando Wiz è arrivato, nell’estate nel 2023, era una bizzarra macchina ricondizionata, con una RAM sovradimensionata e uno schermo touchscreen imperfetto e del tutto superfluo. La batteria era montata fuori posto, e sono occorsi un po’ di tentativi per riuscire se non altro ad accenderlo. Poi, sul più bello che ho installato il sistema operativo, ho scoperto un raro problema di kernel che alcune macchine possono incontrare con la mia versione di GNU/Linux.
«Sarà riparabile?» mi chiedevo, perché non avevo un Beppe né nessun altro a cui chiederlo. Per la prima settimana avevo pensato di no. Di nuovo colpa mia e della mia poca perseveranza. Ema, che con internet è zen, era riuscitə a trovare su un forum uno che aveva avuto lo stesso problema e che si era inventato lì per lì una soluzione (un semplicissimo downgrade del kernel, nel caso ti fosse utile saperlo). Soluzione trovata e computer salvato. Ma nel frattempo mi aveva convintə definitivamente di un’altra tesi di Ivan Illich. A volte la comunità può efficacemente fare a meno degli esperti.
Resta però la domanda a cui né i tizio sul forum né Illich mi hanno aiutato a rispondere, e cioè: che cos’è questa comunità? Non lo so. Pensando a Oscar e a Wiz mi viene in mente qualcosa che potrei chiamare rete oppure comunità. Ma anche la socialità, quella che non è famiglia ma neanche vacanza, fa comunità anche lei. O forse comunità è al plurale… così mi sembra nel tempo di un viaggio in bicicletta tra gli spazi torinesi che mi capita di attraversare. Non sono spazi come concetto, ma stanze in cui scambi sguardi con altre persone, sono diversi, a volte inconciliabili. Pedalando lungo la strada svesto i panni di qualcosa e divento qualcos’altro. Uno studente, un ecologista, una persona trans, un amico, un paziente, un professionista. Anche quando gli spazi si contaminano, l’esperienza resta disomogenea, e mi piace misurare questa disomogeneità sulla scala dell’imbarazzo quando un cliente o una compagna chiede: ma tu cosa ci facevi là?
Plurimi soggetti, forse molteplici comunità. Eppure in mezzo tra uno spazio e l’altro non c’è il vuoto pneumatico, ma strade tutte buche, viali alberati, ponti presidiati dall’esercito, locali, piazze, commessi, parcheggi, attese al semaforo dove i ragazzi si tengono per mano. C’è mondo tra un luogo e l’altro, tanto che anche quel tra inizia a sembrare un luogo in sé abitato. C’è uno spazio compresso ma ancora intellegibile, fatto di cose che mi riguardano. Sarà comunità anche quella? Non lo so.
Forse sto attribuendo a Oscar troppi meriti, ma certo vi partecipa. Ho la scelta, ho la possibilità, e insomma la libertà. Chi mi ama mi segua è vero solo in alcune condizioni, come per esempio quando hai una bicicletta e una città densa in cui muoverti, e il privilegio, ad oggi utopico, di poter disporre come vuoi del tuo tempo.
Solo alla fine del viaggio mi torna in mente che, per breve tempo, prima di chiamarsi Wiz, questo computer si era chiamato Oscar.