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Parole

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  • Riciclabile

    Aggettivo quasi del tutto privo di in significato proprio.

    È la parola magica che, apposta sul packaging, possibilmente in verde e preceduta da “100%”, rende giustificabile la produzione di qualcosa che poteva non essere prodotto. Il suo potere a lungo termine è di permetterci di non mettere in discussione le nostre abitudini e i nostri modi di consumo in virtù del fatto che qualcun altro, di maggiore peso, se ne farà carico al posto nostro. (Per vederne un altro esempio qui una relazione).

    Ovviamente si tratta di un umile tentativo di far entrare l’ambiente nel discorso pubblico, sempre che ci riesca in tempi di relativa pace ecologica. Certo è bizzarro che proprio i soggetti economici, contro il loro interesse, sollecitino la società civile a interessarsi a un problema politico.

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  • In quanto

    Okay non è una parola in senso stretto. Comunque diciamo, “In quanto”: locuzione usata quando c’è bisogno di sollevare meccanicamente il livello di un testo scritto. Di solito l’operazione fallisce.

    Sono accettabili solo le espressioni: “qualcosa in quanto tale”, “in quanto persona coinvolta ritengo…”, e in generale quando la nostra locuzione sostituisce “come” e non “perché”. In tutti gli altri casi anatemi.

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  • Consumismo

    Sostantivo maschile che esiste solo nel capitalismo industriale. Ma l’aspetto più interessante è un altro.

    In un libro del 1984 intitolato Il mondo delle cose. Oggetti, valori, consumo, Mary Douglas e Baron C. Isherwood osservano che pensare al consumo secondo una prospettiva economica non dice nulla sul perché le persone consumano o iper-consumano, o sul perché al contrario risparmiano. L’oggetto di consumo, sia esso durevole come un vestito o effimero come un viaggio, andrebbe guardato con una lente sociale. Come insegna l’interazionismo simbolico, infatti, il suo significato emerge da ciò che l’oggetto è in grado di comunicare di noi all3 altr3.

    Secondo questa prospettiva, una dimensione che lasciamo fuori quando ci occupiamo di consumismo è quella degli oggetti come mezzi di comunicazione. Il consumismo, come problema di giustizia sociale e ambientale non ha una soluzione tecnica né economica, non è una questione che tocca solo l’offerta o la domanda. Senza sminuire il problema e le responsabilità, potremmo forse imparare ad approcciarci in un modo non individualizzante e non colpevolizzante, a partire da questa domanda: quando consumiamo un oggetto, che cosa abbiamo bisogno di comunicare attraverso di esso?

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  • “Sono un comunicatore” o “lavoro nella comunicazione”?

    L’annosa domanda. C’è Sarah Jaffe con Il lavoro non ti ama perennemente sul comodino, a ricordarmi che non solo io non sono il mio lavoro, ma anche che non vorrei diventarlo. Dall’altra parte però c’è Goffman (che ho ripubblicato proprio oggi) e il fatto che comunque il lavoro è una parte importante non solo della mia quotidianità, ma proprio della mia identità. Dall’altra parte ancora (eh sì, questo è un ring con tre angoli) c’è un’idea politica che, contrariamente a quanto mi hanno insegnato, e cercando come posso di andare incontro all’ideale della società della cura, mi inviterebbe a non vivere il lavoro come un compartimento stagno. Vale a dire, le relazioni che passano dal lavoro sono comunque relazioni tra persone prima che tra ruoli, anche se ci sono di mezzo i soldi, e magari chissà, viverle in questo modo potrebbe addirittura aiutarci a depotenziarli un poco.

    Nel mezzo ci sono io, che ho deciso di presentarmi come blogger, professionista, studente e attivista – ma solo perché so ne potrei aggiungere all’infinito. È come quando scatti una foto a delle persone che ballano. E comunque imparare a convivere con la parzialità delle istantanee è un buon esercizio di queering.

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